In occasione delle rilevanti modifiche apportate al sistema codicistico della prescrizione, il Legislatore non è intervenuto sul corrispondente istituto previsto dall’art. 22 del d.lgs. n.231 del 2001, relativo alla responsabilità da reato degli enti che, come noto stabilisce, che una volta intervenuta la contestazione dell’illecito amministrativo prima del maturare del termine della prescrizione, la stessa «non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio».

Tale previsione comporta che ove pure il reato si prescrivesse nelle more del giudizio nei confronti della persona fisica imputata nello stesso processo, quest’ultimo poteva ugualmente proseguire per accertare la responsabilità dell’ente. La notevole diversità del regime giuridico della prescrizione previsto per il reato e per l’illecito dell’ente, pur dipendenti entrambi dal medesimo fatto storico, avevano fatto dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 22, d.lgs. n.231 del 2001. La Corte, con plurime pronunce aveva ritenuto manifestatamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 d.lgs. n.231 del 2001, per asserito contrasto con gli artt.3, 24, comma secondo, e 111 Cost., in relazione alla presunta irragionevolezza della disciplina della prescrizione prevista per gli illeciti commessi dall’ente-imputato rispetto a quella prevista per gli imputati-persone fisiche, atteso che la diversa natura dell’illecito che determina la responsabilità dell’ente, e l’impossibilità di ricondurre integralmente il sistema di responsabilità da reato nell’ambito e nella categoria dell’illecito penale, giustificavano il regime derogatorio della disciplina della prescrizione (Sez.6, n.28299 del 10/11/2015 – dep.2016, Bonomelli, Rv. 267047). Come suggerito in una nota a commento della riforma emessa dalla Suprema Corte, all’esito del nuovo assetto della prescrizione e, soprattutto, dell’improcedibilità dell’azione, dettata dall’art. 344-bis cod. proc. pen., i rapporti tra la prescrizione del reato e quella dell’illecito amministrativo da esso dipendente vanno necessariamente rimeditati.  La riforma in esame ha, invero, avvicinato i due modelli di prescrizione, pur senza renderli del tutto omogenei. Allo stato, infatti, il termine della prescrizione del reato cessa di decorrere a far data dalla sentenza di primo grado, mentre quello previsto per l’illecito amministrativo si arresta di molto in anticipo, fin dal momento della contestazione dell’illecito. Tuttavia, pur differendo il dies ad quem, per entrambe le forme di responsabilità attualmente vale la regola per cui, al verificarsi dell’atto che comporta la definitiva interruzione del decorso del termine, questo non riprende più il suo corso. Rispetto a tale quadro normativo, occorre allora valutare quali sono le conseguenze derivanti dall’introduzione della causa di improcedibilità legata alla durata delle fasi di impugnazione. Le possibili alternative interpretative si differenziano, essenzialmente, a seconda che si valorizzi la natura processuale del nuovo istituto e la sua compatibilità con il regime contenuto nel d.lgs. n.231 del 2001, ovvero la peculiarità della prescrizione – 46 basata su un archetipo di tipo civilistico – come recepita dall’art. 22, d.lgs. n.231 del 2001. La prima e, per molti versi, più lineare, soluzione potrebbe essere quella di ritenere che l’improcedibilità dell’azione introdotta all’art. 344-bis cod. proc. pen. sia un istituto che, pur avendo innegabili risvolti sostanziali, opera all’interno del processo, determinandone l’impossibilità della prosecuzione. L’improcedibilità dell’azione, proprio perché formalmente costruita come istituto processuale, sarebbe immediatamente applicabile anche al processo a carico degli enti, stante il richiamo previsto dall’art. 34 d.lgs. n.231 del 2001 che, pur con la clausola di salvaguardia della verifica di compatibilità, estende le norme del codice di rito all’accertamento dell’illecito amministrativo. Valorizzando tale elemento, non parrebbero potere ricorrere ragioni ostative a che l’improcedibilità dettata dall’art. 344-bis cod. proc. pen. sia incompatibile rispetto alle norme del capo III del d.lgs. n.231 del 2001, sicché la stessa dovrebbe ritenersi immediatamente operante. Del resto, ipotizzare che l’improcedibilità ex art. 344-bis cod. proc. pen. non operi con riguardo all’illecito dell’ente comporterebbe che tale soggetto processuale, a differenza dell’imputato, si vedrebbe esposto ad una durata non preventivabile del giudizio. È pur vero che tale evenienza era già contemplata nell’originaria disciplina, ritenuta costituzionalmente legittima, ma tale soluzione potrebbe esser messa in discussione a seguito del mutato quadro normativo, nel quale la disciplina sostanziale della prescrizione – per l’imputato e per l’ente – è stata sostanzialmente assimilata, sicché risulterebbe in contrasto con la parità di trattamento ed il principio di ragionevole durata del processo escludere, per il solo ente, una disciplina idonea ad impedire una durata sine die del processo.

A diverse conclusioni – ma non senza incorrere in non manifestamente infondati dubbi di costituzionalità – si potrebbe pervenire ritenendo che l’improcedibilità dell’azione sia una disciplina complementare rispetto alla prescrizione del reato e per ciò solo assuma una sua autonoma valenza. Argomentando in tal senso, la prescrizione del reato e l’analogo istituto previsto per la responsabilità degli enti continuerebbero ad essere distinti e tali da non consentire l’innesto della novella normativa che, in quest’ottica, andrebbe a costituire una sorta di appendice processuale della prescrizione. Tale soluzione, si legge nella medesima nota della Suprema Corte, ovviamente, si scontrerebbe con il dato formale per cui l’istituto dell’improcedibilità è pur sempre di natura processuale, con la conseguenza che la sua mancata applicazione nel processo a carico degli enti dovrebbe necessariamente passare per un vaglio di incompatibilità rispetto alla clausola di richiamo contenuta all’art. 34, d.lgs. n.231 del 2001. Un’ulteriore soluzione interpretativa potrebbe essere quella di valorizzare il dato letterale contenuto nell’art. 344-bis cod. proc. pen., lì dove si prevede che il decorso del tempo determina l’improcedibilità “dell’azione penale”: si potrebbe così sostenere che l’azione penale sia solo quella esercitata nei confronti dell’imputato, in tal modo escludendo dall’ambito applicativo della norma l’azione con la quale si fa valere l’illecito amministrativo. Della fondatezza di una tale opzione normativa potrebbe però dubitarsi. In primo luogo, si potrebbe rilevare come l’equiparazione dell’ente all’imputato e l’estensione della disciplina processuale, finisca per comportare una sostanziale assimilazione dell’azione propriamente penale rispetto a quella che attiva il procedimento a carico  dell’ente, dato che l’iniziativa è rimessa al medesimo organo e l’iter processuale che ne consegue è retto dalla stessa disciplina16. Peraltro, non può non sottacersi come il riferimento all’azione penale contenuto nell’art. 344-bis cod. proc. pen. potrebbe avere una scarsa portata definitoria, ove si ritenga che la norma, più che incidere sull’esercizio dell’azione che, evidentemente, una volta intervenuta, ha esaurito il suo effetto propulsivo, abbia voluto introdurre un’ipotesi impeditiva rispetto alla prosecuzione del giudizio. In buona sostanza, il decorso del tempo escluderebbe che il giudizio possa giungere al suo esito naturale, senza che ciò incida sull’azione a suo tempo esercitata.

Conclude dunque la nota che, alla luce di tali considerazioni, una lettura costituzionalmente orientata potrebbe far propendere per l’estensione della disciplina contenuta all’art. 344-bis cod. proc. pen. anche alla disciplina dell’illecito da reato degli enti, con la conseguenza che, ove il giudizio non possa essere proseguito, a causa del superamento dei termini di legge, dovrebbe cessare anche il processo a carico dell’ente.