Il diritto ad essere giudicato da chi ha assunto la prova.

Oggi e domani, aderendo all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione delle Camere Penali, anche tutti gli avvocati dello Studio si asterranno da qualsiasi attività giudiziaria sul territorio nazionale.

Vi spieghiamo perché.
L’articolo 477 del codice di procedura penale prevede, al suo primo comma, che “quando non è possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza”, il giudice “dispone che esso venga proseguito nel giorno seguente non festivo” mentre, al secondo comma, che “il giudice può sospendere il dibattimento soltanto per ragioni di assoluta necessità e per un termine massimo che, computate tutte le dilazioni, non oltrepassi i dieci giorni, esclusi i festivi”.
Abbiamo chiaro che i processi di oggi possono essere molto complessi, e richiedere molte udienze, basti pensare a quelli di responsabilità medica, o quelli per reati ambientali, e legati alle attività di impresa in genere: ogni processo ha e deve avere i suoi tempi in cui svolgere scrupolosamente tutte le attività necessarie ad accertare la verità. Ma i tempi non possono e non devono dilatarsi ingiustificatamente e all’inverosimile. E questo lo affermano con forza gli avvocati, spesso tacciati nell’immaginario collettivo di ostacolare il procedere del giudizio a vantaggio dell’assistito.
Il problema è, invece, che a fronte di  una regola precisa che poi è una garanzia fondamentale per il cittadino – chiaramente ispirata al sistema processuale angloamericano che richiede di concentrare il processo  in una serie di udienze tra loro molto ravvicinate  –  la prassi, comune a tutti i Tribunali, è quella per cui i dibattimenti si trascinano per mesi o più spesso per anni con udienze successive calendarizzate a distanza anche di parecchi mesi l’una dall’altra.  E’ questo un grave nocumento per tutte le persone che rimangono anni sottoposte a processo, innocenti fino a sentenza definitiva spesso solo sulla carta, e quindi un fallimento per tutta la giustizia.
Il problema della ragionevole durata del processo è più che mai attuale: stando ad una indagine condotta dal Sole 24 Ore, nel dicembre 2019 la durata media di un processo di primo grado andava dai 184 giorni del Tribunale di Trento fino ai 635 giorni del Tribunale di Salerno; e la situazione, complice, prima la sospensione, e poi la lenta – più lenta che in qualsiasi altro settore – ripresa dell’attività giudiziaria a seguito dell’emergenza pandemica, non è certo migliorata.
Il problema della ragionevole durata del processo è più che mai sentito. Purtroppo non se ne discute quasi mai con lo sguardo rivolto a chi si trova per un lunghissimo tempo in un angosciante  limbo, ma piuttosto per l’allarme – spesso amplificato senza ragione –  del numero di sentenze di prescrizione con cui si concludono i processi.  Per ovviare a questo epilogo,  si assiste a ciclici interventi del legislatore volti ad allungare i termini di prescrizione dei reati – ormai giunti a estremi difficili da credere –  nel completo disinteresse di chi, di quei tempi è vittima (per fare un esempio, un imprenditore imputato di omicidio colposo per un fatto accaduto oggi potrà essere processato utilmente fino al 2037).

Il dilatarsi dei tempi dei processi ha anche un altro fisiologico effetto collaterale che è  l’avvicendamento del Giudice nel corso dello stesso giudizio. Nel corso di un dibattimento che si protrae per anni ed anni, è quasi inevitabile che spesso, per non dire spessissimo, accada che il Giudice davanti a cui è iniziato il processo cambi funzione, venga trasferito in altra sede, vada in pensione e così via. Che succede in questi casi? E perché è stata indetta l’astensione da parte degli avvocati?

Uno dei principi cardine del giusto processo, sancito sia dalla nostra Costituzione che dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, è quello per cui l’imputato ha il diritto di essere giudicato dallo stesso giudice davanti a cui è stata raccolta la prova;
Non sono fissazioni o isterie degli avvocati: l’ha più volte affermato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, “la possibilità per l’imputato di confrontarsi con i testimoni in presenza del giudice che dovrà poi decidere sul merito delle accuse costituisce una garanzia del processo equo, in quanto permette a quest’ultimo di formarsi un’opinione circa la credibilità dei testimoni fondata su un’osservazione diretta del comportamento, con la conseguenza che ad ogni avvicendamento del giudice deve seguire, di norma, una nuova audizione del testimone le cui dichiarazioni possano apparire determinanti per l’esito del processo.

Un simile principio è talmente importante da essere stato ovviamente codificato in un articolo dedicato del nostro Codice di procedura penale e, precisamente, l’articolo 525 in cui si prevede espressamente che alla deliberazione della sentenza possono concorrere, a pena di nullità, solo gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento.
In caso di mutamento del giudice, il Codice impone al giudice subentrante che dovrà decidere se assolvere o condannare, di procedere alla ri-assunzione della prova precedentemente assunta dal collega che sostituisce, e cioè di risentire i testimoni che avevano deposto davanti al giudice sostituito. I tempi ovviamente si allungano, non per colpa dell’imputato, ma la posta in gioco è importante. Tanto che a questa regola – fondamentale per un processo e una decisione giusta –   fino a qualche tempo fa si poteva derogare con il consenso dell’imputato, al cui solo era rimessa la scelta di rinunciare a questa garanzia, ed acconsentire a venire giudicato da chi il processo non lo aveva celebrato.
Finché è stato cosi, quando durante il giudizio cambiava Giudice, magari dopo che tutti i testimoni erano già stati esaminati,  si avvertiva spesso la forte pressione del Giudice subentrante a non ripetere l’attività svolta, si considerava dilatoria la mancata rinuncia,  si acconsentiva a rispettare la regola a volte con malcelato formale ossequio alle garanzie previste per il cittadino.

Il legislatore non è mai intervenuto per porre rimedio a questa causa di dilatazione dei tempi processuali divenuta francamente intollerabile; e così, come spesso accade, in luogo del legislatore, che avrebbe ad esempio potuto stabilire l’obbligo per il giudice che chiede di essere trasferito ad altra sede o funzione di concludere i processi in corso prima del trasferimento, sono intervenuti i giudici stessi. A stabilire però, con una sentenza, che la riassunzione della prova, nonostante la chiara lettera del codice che continua ad essere in vigore, non è più sempre dovuta e obbligatoria, ma diventa ipotesi del tutto eccezionale connessa al ricorrere di stringenti criteri, mai  previsti da alcuna disposizione di legge (!).
Nel 2019 con  sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite è stata dunque  stravolta, riscrivendola, quella fondamentale garanzia chiarissimamente consacrata nell’articolo 525 che prevede, e continua a prevedere (!), pena la nullità della sentenza, la perfetta coincidenza tra giudice che ha assunto le prove e giudice che decide sulla base di quelle prove.
Dopo quella sentenza delle Sezioni Unite, il giudice subentrato può decidere limitandosi a leggere le trascrizioni delle prove raccolte mesi o anni prima da un altro giudice (o davanti ad altri giudici perché gli avvicendamenti possono essere molteplici). E così accade nella stragrande maggioranza dei processi celebrati in Italia perché ciò che, per legge, doveva essere un’eccezione rimessa alla scelta dell’interessato,  è oggi divenuto la regola.
Ancora una volta, si barattano i tempi del processo con le garanzie fondamentali dei cittadini. In seguito alla pronuncia di quella sentenza, si è venuta a creare, come affermato in una lettera inviata dall’Unione delle Camere Penali a tutti i Presidenti dei Tribunali e delle Corti di Appello, “una situazione davvero insostenibile” dalle conseguenze “che non esistiamo a definire letteralmente devastanti sulla qualità della giurisdizione e sui processi fondativi del giusto processo”.
A quella lettera in cui veniva denunciata “l’intollerabile prevalenza di esigenze del tutto personali – ancorché legittime – del giudice sul diritto dell’imputato ad essere giudicato da chi ha assunto la prova” e con cui si preannunciava l’intendimento dei penalisti italiani a “contrastare con forza e con ogni iniziativa, nei processi e fuori dai processi, questa inammissibile negazione dei principi costitutivi del giusto processo”, ha fatto seguito la delibera di astensione che ci porta oggi, e domani, ad astenerci dallo svolgimento di qualsiasi attività processuale.
In questi giorni sono in corso di definizione i decreti delegati della c.d. “Riforma Cartabia” per l’efficientamento del processo penale ed è, pertanto, fondamentale, come si legge nella citata delibera di astensione delle Camere Penali Italiane, “sollecitare Governo e Parlamento ad assumere immediati provvedimenti in grado di risolvere le storture determinatesi nel sistema e così riaffermare l’inderogabilità dei principi del giusto processo”.