Piero Calamandrei, fra i più saggi e insigni giuristi di sempre, scriveva che “lo Stato siamo noi”. Lo Stato siamo noi, che attraverso i nostri rappresentanti, decidiamo che debbano esistere delle regole che tratteggino i rapporti tra i membri che compongono tutta la comunità. Nel campo della privacy, lo Stato siamo noi, che abbiamo voluto – perché lo consideravamo importantissimo –  un insieme di regole a salvaguardia di un perimetro personalissimo che deve rimanere invalicabile. Lo Stato siamo noi, che chiediamo il rispetto di tale limite, accettando di rispettarlo quando si tratta degli altri.
Infine, lo Stato siamo noi, che sappiamo perfettamente quali aspetti della nostra vita riteniamo assolutamente riservati, e capiamo quindi benissimo quando verso gli altri stiamo per valicare, sbagliando, quel confine importantissimo.
E’ lo sbaglio che stiamo dolosamente e oscenamente commettendo all’indomani dell’arresto del latitante Messina Denaro, per cui, come in un copione già visto nelle cronache giudiziarie, quelle regole fondamentali sembrano potersi sospendere quando si tratti di condannati, ma anche solo indagati, e persino persone a loro vicine che non hanno nulla a che fare coi fatti.

La privacy è un bene assoluto. Ed in assoluto ai giorni nostri, non c’è  un altro valore ugualmente prezioso che sia così minacciato. Gli sforzi per tutelare questo diritto fondamentale dagli innumerevoli tipi e modalità di aggressioni non si contano, anche se paiono vanificati da sanzioni che, a giudicare dai risultati, non sembrano altrettanto adeguate. La comune percezione che tutti ci si occupi di privacy, ma che in fondo la privacy non esista, ci spinge quanto meno a riflettere se in questo non ci sia un fondo di verità e dove poter rimediare.

L’intervento del garante della privacy in questa occasione, peraltro fra i pochi  che si ricordi in situazioni analoghe, così chiaro e severo,  al momento è il massimo che si potesse sperare; proprio per questo andrebbe scolpito nella pietra e lo riportiamo qui di seguito per intero. Con l’auspicio che, chi deve, ne possa trarre monito per il  futuro. A beneficio di quanti, pur dal nome meno altisonante, non siano costretti a subire lo stesso trattamento.

Le condizioni  di salute di Matteo Messina Denaro sono pubbliche fin nei minimi dettagli, così come lo sono aspetti personali e personalissimi della sua vita, persino sessuale. All’indomani del suo arresto si è scatenata una rincorsa mediatica con pochi precedenti nella quale i protagonisti si sono ingarellati nel raccontare e pubblicare, ciascuno qualcosa di più: la sua cartella clinica, dettagli sulla sua patologia, il viagra ritrovato nel suo covo, i preservativi.

Un frainteso ed equivocato diritto di cronaca sembra aver inghiottito, con una serie di bocconi che sembrano non aver ancora appagato e soddisfatto gli appetiti e il voyerismo di lettori e telespettatori, la privacy, la riservatezza e l’intimità di una persona che pur avendo probabilmente seminato più dolore, disperazione, odio e violenza di chiunque altro, è e resta un uomo con diritti e libertà inviolabili in uno Stato di diritto. Scriverlo è, purtroppo, impopolare.

Il Tribunale dei media e quello dei socialnetwork emettono sempre sentenze tagliate con l’accetta, decisioni binarie, bianche o nere. Si è colpevoli o innocenti e, nel primo caso, si perde ogni diritto e ogni libertà anche quando la legge le riconosce a chiunque, a prescindere dall’intensità del suo profilo criminale. E, però, questo approccio, in questa vicenda innegabilmente alimentato dai media mainstream che hanno diffuso per primi i dati, gli elementi, i particolari e i documenti in questione, non ha, davvero, niente a che vedere con lo Stato di diritto nel quale ambiamo a vivere e nel nome ed a garanzia del quale abbiamo prima processato e poi arrestato un killer, un carnefice, un assassino, forse persino un mostro come Matteo Messina Denaro.

L’altro giorno, quando i carabinieri lo hanno arrestato è stato un giorno di festa della democrazia perché è alla democrazia che lui e i suoi pari e i loro “compagni di merenda”, probabilmente nascosti anche nei ranghi delle istituzioni, per decenni hanno attentato. Ma un istante dopo è accaduto che proprio mentre si celebrava questa straordinaria festa della democrazia, in molti – troppi per la verità – hanno violato e profanato i principi costituzionali sui quali questa democrazia, la nostra democrazia è fondata, rendendo pubblici, senza alcuna giustificazione, necessità, bisogno informazioni e dati che avrebbero potuto e dovuto restare privati senza nulla togliere alla cronaca di un momento della vita del Paese destinato, certamente, a entrare nelle pagine della nostra storia.

Perché diciamoci la verità, la pubblicazione della cartella clinica di Messina Denaro non toglie e non aggiunge niente né alla storia della sua latitanza ultratrentennale, né a quella della sua cattura. L’una e l’altra avrebbero potuto essere raccontate limitandosi a parlare di una persona colpita da una grave patologia senza bisogno di raccontare lo stadio del tumore, le sue caratteristiche, l’organo colpito e quanto altro abbiamo letto in queste ore. E, allo stesso modo, che abbia avuto una latitanza diversa da altri suoi illustri e meno illustri “colleghi” di Cosa nostra, meno riservata, più ispirata alla bella vita nonché alla frequentazione del gentil sesso, avrebbe potuto essere raccontato senza bisogno di soffermarsi sul viagra o sui preservativi trovati in uno dei suoi covi.

Si dice spesso che è difficile identificare i confini del diritto di cronaca, i limiti dell’interesse pubblico a conoscere fatti e misfatti specie di personaggi pubblici e, talvolta, è davvero così. Ma non in questo caso. Lo dice la legge – quella sulla privacy -, lo dicono i codici deontologici firmati dai giornalisti e dagli editori e dovrebbe dirlo, ancora prima, il comune senso di civiltà. In questo caso non cerchiamo alibi che non ci sono. In questo caso chi ha scritto e chi ha letto, chi ha pubblicato la cartella clinica e chi l’ha analizzata, chi ha fatto rimbalzare in televisione le parole “viagra” e “preservativi” e chi le ha raccolte e condivise sui social, tutti, nessuno escluso, avrebbe potuto – e, in molti casi – avrebbe dovuto rendersi conto che facendolo si stava erodendo, travolgendo, cancellando quella linea di confine tra il pubblico e il privato al cui rispetto ha diritto persino il più feroce degli assassini, dei macellai e dei mostri.

Almeno se vogliamo continuare a vivere in uno Stato di diritto e conservare il diritto di puntare l’indice all’indirizzo di Paesi, vicini e lontani, che non sono Stati di diritto, che sono indietro di secoli in termini di civiltà giuridica, etica e cultura, Paesi nei quali i criminali sono trattati, più o meno, come, in questa occasione, in alcuni passaggi, abbiamo trattato Matteo Messina Denaro. Altrove torturano, impiccano e privano dell’ultimo respiro il corpo di una persona, noi, talvolta, persa la bussola della democrazia e dello Stato di diritto, facciamo altrettanto della dignità, dell’identità personale e dei diritti fondamentali dei nostri criminali.

I più non saranno d’accordo, ma questa volta abbiamo sbagliato: quei documenti, quei dati e quelle informazioni personali, semplicemente, non andavano pubblicati perché noi, in Italia, crediamo nella democrazia, nelle regole del diritto e nello Stato di diritto, nel giusto processo, nelle pene e nel rispetto, sempre e comunque, della dignità della persona, di qualsiasi persona, mostri inclusi.