Pochi giorni fa davamo conto dei risultati emersi da uno studio condotto dall’Università Statale di Milano sugli esiti dei processi nei confronti degli enti celebrati davanti al Tribunale di Milano tra il 2016 ed il 2021(vedi Sap News del 9 Giugno 2022); stante lo sconfortante numero di sentenze, oltre la metà, in cui si era giunti alla condanna di enti pur dotati di un Modello Organizzativo, auspicavamo un’inversione di rotta della giurisprudenza che potesse essere più propensa a riconoscere gli sforzi di tutte quelle società che, volontariamente e sostenendo costi economici ed organizzativi non indifferenti, avevano adottato un proprio Modello Organizzativo, modificato pesantemente le prassi operative, con la legittima aspettativa di andare esenti da responsabilità.
Accogliamo, pertanto, con soddisfazione la recente sentenza n. 23401/2022 del 15 giugno 2022 con cui la Sezione Sesta della Corte di Cassazione, intervenuta all’esito di un procedimento per aggiotaggio iniziato proprio davanti al Tribunale di Milano, ha affrontato una serie di questioni davvero cruciali in materia di responsabilità amministrativa degli enti.
In questo nostro breve commento ci soffermeremo sulle fondamentali e confortanti indicazioni che sono state fornite, e che auspichiamo saranno scrupolosamente seguite, ai Giudici chiamati a pronunciarsi sull’idoneità di un Modello Organizzativo nell’ambito di un processo.
Ricordato che l’articolo 6 del Decreto 231, in relazione ai reati commessi dagli apicali, prevede che “l’ente non risponde se prova che l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”, la Corte di Cassazione precisa subito che tale norma “non prevede alcuna inversione dell’onere probatorio”, ragion per cui è preciso onere dell’accusa, una volta dimostrata l’esistenza di un reato presupposto commesso da un soggetto apicale nell’interesse o a vantaggio dell’ente, fornire “gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità di quest’ultimo”.
Certamente, aggiunge la Corte, “la commissione del reato non equivale a dimostrare che il modello non sia idoneo” perché “il rischio di reato viene ritenuto accettabile quando il sistema di prevenzione non possa essere aggirato se non fraudolentemente, a conferma del fatto che il legislatore ha voluto evitare di punire l’ente secondo un criterio di responsabilità oggettiva”; detto altrimenti, l’accusa non può assolvere al suo onere probatorio limitandosi ad affermare che se fosse stato adottato un Modello idoneo non sarebbe stato commesso alcun reato perché “l’ente risponde in quanto non si è dato un’organizzazione adeguata, omettendo di osservare le regole cautelari che devono caratterizzarla”.
Fissato questo primo fondamentale principio, assolutamente condivisibile e finalmente espresso a chiare lettere anche dalla Corte di Cassazione, si legge in sentenza che la valutazione sull’idoneità del Modello – che il Giudice dovrà svolgere collocandosi “idealmente nel momento in cui il reato è stato commesso” per “verificarne la prevedibilità ed evitabilità qualora fosse stato adottato il modello virtuoso”” – dovrà necessariamente riguardare la sua attuazione “basandosi su elementi di fatto concreti, raccolti in istruttoria (testimonianze, perizie, prove scientifiche)”.
Con simili affermazioni la Corte di Cassazione intende, quindi, mettere in guardia i Giudici dal ricorso a qualsiasi automatismo o presunzione pretendendo che la colpa dell’ente venga accertata e provata attraverso gli stessi criteri già utilizzati in altri ambiti del diritto penale per affermare la sussistenza di una colpa in capo alle persone fisiche; una piena e corretta equiparazione, dunque, tra ente e persona fisica dal punto di vista dell’elemento soggettivo che si pone in linea di continuità con quanto affermato in una recente pronuncia della Sezione Quarta (vedi ns. precedente news del 15.05.2022) là dove la Corte di Cassazione aveva già precisato che la “colpa di organizzazione” dell’ente riveste “la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, quale elemento costitutivo del fatto tipico, integrato dalla violazione “colpevole” (ovvero rimproverabile) della regola cautelare”.
Ribaditi tali condivisibili principi, la sentenza n. 23401/2022 della Sezione Sesta, si sofferma, poi, sul parametro con cui il Giudice deve calibrare il proprio giudizio sull’idoneità del Modello Organizzativo preso in esame.
Tale passaggio è di assoluto e preminente rilievo perché riconosce un ruolo fondamentale alle indicazioni e alle misure preventive individuate dalle Linee-guida per la Costruzione dei Modelli Organizzativi che sono state elaborate nel corso degli anni da numerose associazioni di categoria tra cui ricordiamo, su tutte, quelle di Confindustria aggiornate, da ultimo, nel giugno 2021 (vedi Sap News del 25.06.2021). Ricordiamo, infatti, che l’art. art. 6, comma 3, del Decreto 231 prevede la possibilità di adottare i Modelli Organizzativi “sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti”, che a tale previsione ha fatto seguito l’elaborazione di numerose linee-guida da parte di numerose associazioni di categoria e che, nella prassi, a tali linee-guida si ispirano (o dovrebbero ispirarsi) tutti i Modelli Organizzativi adottati dalle società. Correttamente, la Corte afferma che la possibilità, riconosciuta dall’art. 6, comma 3, del Decreto 231, di adottare i Modelli Organizzativi sulla base delle linee-guida redatte dalle associazioni di categoria, serve sia a “fissare parametri orientativi per le imprese nella costruzione del Modello Organizzativo” sia a “temperare la discrezionalità del giudice nella valutazione dell’idoneità del modello stesso”.
Dal punto di vista dell’ente che deve costruire il proprio Modello o che volesse verificarne l’idoneità anche alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale, è bene tenere presente che, ad avviso della Corte, tali linee-guida hanno, quindi, natura orientativa e “non costituiscono una regola organizzativa esclusiva ed esaustiva” perché il processo che porta all’adozione di un Modello Organizzativo è “un processo di auto-normazione” ed “è l’impresa, anche tenendo presenti le indicazioni delle associazioni di categoria, che individua le cautele da porre in essere per ridurre il rischio di commissione dei reati”.
Del tutto condivisibilmente la Corte di Cassazione riconosce, in sostanza, che le linee-guida elaborate dalle associazioni di categoria costituiscono un valido ed affidabile punto di partenza da cui muovere per elaborare un Modello “più singolare possibile, perché, solamente se calibrato sulle specifiche caratteristiche dell’ente (dimensioni, tipo di attività, evoluzione diacronica), esso può ritenersi effettivamente idoneo allo scopo preventivo affidatogli dalla legge”.
Ma, e qui sta uno dei passaggi più apprezzabili della motivazione offerta dalla Corte di Cassazione, dal punto di vista del Giudice chiamato a pronunciarsi sulla idoneità del Modello, la Corte fissa un principio che appare idoneo a limitare l’eccessiva discrezionalità con cui, fino ad oggi, si è proceduto ad esprimere i giudizi sull’idoneità dei Modelli Organizzativi in sede processuale.
In presenza di un Modello conforme alle linee guida delle associazioni di categoria, la Corte di Cassazione afferma, infatti, che “il Giudice sarà tenuto specificamente a motivare le ragioni per le quali possa ciò nonostante ravvisarsi la “colpa di organizzazione” dell’ente, individuando la specifica disciplina di settore, anche di rango secondario, che ritenga violata o, in mancanza, le prescrizioni della migliore scienza ed esperienza dello specifico ambito produttivo interessato, dalle quali i codici di comportamento ed il modello con essi congruente si siano discostati, in tal modo rendendo possibile la commissione del reato”.
La sentenza in commento affronta anche altre importanti e dibattute questioni in materia di responsabilità amministrativa degli enti, come quelle relative alla composizione dell’ Organismo di Vigilanza da cui dipende necessariamente il giudizio sull’idoneità del Modello ed al suo ruolo.
Sotto il primo profilo, il nodo processuale affrontato dalla Corte era se si potesse considerare idoneo il Modello che, nel caso di specie, prevedeva un Organismo di vigilanza monocratico, interno aziendale, ed il cui componente era, nell’organigramma aziendale, alle dirette dipendenze degli organi apicali. Sulla scelta operata dalla Società coinvolta la Corte si dimostra, a ragione, molto perplessa. Come regola generale nella predisposizione di qualunque Modello si deve tenere a mente che una scelta di questo tipo, per usare le parole della Corte, lascia ragionevolmente dubitare della autonomia ed indipendenza di cui per legge deve godere l’O.d.V. Tuttavia, anche in una situazione del genere, la lacuna od il punto di debolezza dell’O.d.V., possono condurre a ravvisare una responsabilità dell’ente soltanto se abbiano avuto un’efficienza causale nella commissione del reato presupposto da parte del soggetto apicale, nel senso che la condotta di questi sia stata resa possibile, anche in via concorrente, proprio dall’assenza o dall’insufficienza delle prescrizioni contenute nel modello comprese quelle che avrebbero dovuto garantire una adeguata autonomia ed indipendenza dell’O.d.V. E’, questa, come si è detto, l’unica lettura normativa possibile, per evitare tensioni con il principio costituzionale del divieto di responsabilità per fatto altrui (art. 27, primo comma, Cost.), peraltro applicabile anche al sistema sanzionatorio amministrativo (art. 1, legge. n. 689 del 1981) e, a maggior ragione, alla disciplina della responsabilità da reato degli enti.
La Corte dirada anche le nubi che ciclicamente si addensano attorno al ruolo dell’O.d.V. Questione che sembra destinata a non sopirsi, e che spesso viene complicata più di quanto lo sia. Forti della chiarezza di questa pronuncia, possiamo mettere un punto fermo all’interno del dibattito, con le stesse parole della Corte: Un modello organizzativo che rendesse obbligatorio un preventivo controllo dell’O.d.V. di qualsiasi atto del presidente o dell’amministratore delegato di una società, sarebbe difficilmente conciliabile con il potere di rappresentanza, d’indirizzo e di gestione dell’ente, che la legge civile riconosce a quegli organi. Diversamente, l’organismo di vigilanza finirebbe per trasformarsi in una specie di supervisore dell’attività degli organi direttivi e d’indirizzo della società, inserendosi, di fatto, nella gestione di quest’ultima, ma, in tal modo, esorbitando dal compito affidatogli dall’art. 6, lett. b), d.lgs. 231, che è solamente quello di individuare e segnalare le criticità del modello e della sua attuazione, senza alcuna responsabilità di gestione. Peraltro, un potere così pervasivo risulterebbe attribuito a tale organo con esclusivo riferimento al profilo della responsabilità da reato, dando così luogo ad un groviglio di competenze e ad un’evidente disarmonia di sistema, dal momento che, in ordine agli effetti civili di quegli stessi atti, quell’organismo non avrebbe poteri interdittivi o d’interlocuzione. Invero, l’organismo di vigilanza non può avere connotazioni di tipo gestorio, che ne minerebbero inevitabilmente la stessa autonomia: ad esso spettano, piuttosto, compiti di controllo sistemico continuativo sulle regole cautelari predisposte e sul rispetto di esse nell’ambito del modello organizzativo di cui l’ente si è dotato.