Nella nostra precedente news del 2 settembre 2022, segnalavamo la rimessione alle Sezioni Unite della questione concernente la possibilità per l’ente imputato ai sensi del decreto 231 di estinguere il reato mediante la  messa alla prova, al pari degli imputati persone fisiche,  e così congiurare il rischio di una condanna, questione su cui nel tempo si erano succedute pronunce contrastanti.

È notizia di ieri, diffusa a mezzo di un comunicato della Corte di Cassazione, che rispetto a tale questione le Sezioni Unite hanno adottato la seguente soluzione: “l’istituto dell’ammissione alla prova (art. 168 bis cod. pen.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d. lgs. 231 del 2001”.

L’aspetto certamente positivo, all’indomani della pronuncia, è che al di là dell’esito che si poteva auspicare, almeno l’incertezza giurisprudenziale sul tema è terminata.

A preoccupare, invece,  sono le ricadute pratiche di tale decisione. La Corte infatti prima di decidere nel merito della questione ha dovuto affrontare un altro nodo, ovvero se fosse o non fosse ammissibile il ricorso in Cassazione avanzato dal Procuratore generale contro la Sentenza emessa dal Giudice che aveva dichiarato estinto il reato dell’ente verificato l’esito positivo della prova da parte dell’ente.

E’ proprio su questo punto, avendo concluso per l’ammissibilità del ricorso,  che si profilano preoccupanti scenari per tutte le istanze di messa alla prova che continueranno ad essere avanzate per gli imputati persone fisiche.

Ciò è stato possibile in quanto, riprendendo un altro passaggio dell’informativa, la  Corte di Cassazione ha stabilito che Il procuratore generale è legittimato, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen., ad impugnare con ricorso per cassazione, per i motivi di cui all’art. 606 cod. proc. pen., l’ordinanza di ammissione alla prova (art. 464-bis cod. proc. pen.), ritualmente comunicatigli ai sensi dell’art. 128 cod. proc. pen. e poi anche che in caso di omessa comunicazione dell’ordinanza è legittimato ad impugnare quest’ultima insieme con la sentenza al fine di dedurre anche motivi attinenti ai presupposti di ammissione alla prova.

In estrema sintesi, in punto di diritto si delinea questo quadro:
Nonostante l’art. 464-quater, al comma 7, preveda testualmente che «contro l’ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova possono ricorrere per cassazione l’imputato e il Pubblico Ministero, anche su istanza della persona offesa», la norma viene letta  dalle Sezioni Unite nel senso che anche “Il procuratore generale è legittimato, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, cod. proc. pen., ad impugnare con ricorso per cassazione (…)”.
Ad una interpretazione così distante dal dato letterale della norma, segue da parte della Corte, il richiamo all’art. 128 c.p.p., regola generale del codice di rito che prevede la notifica al Procuratore Generale delle ordinanze dibattimentali che devono essere impugnate senza attendere il deposito della sentenza; se, come ritenuto dalle Sezioni Unite, il Procuratore Generale ha diritto di impugnare l’ordinanza che decide sulla richiesta di messa alla prova, lo stesso ha, allora, diritto a ricevere anche la notifica di tale ordinanza. Afferma poi la Corte che “in caso di omessa comunicazione dell’ordinanza è legittimato ad impugnare quest’ultima insieme con la sentenza (…)”, il che sta a significare che se la notifica al Procuratore Generale viene omessa, ovviamente per ragioni di cancelleria del tutto estranee a qualsiasi potere di intervento da parte dell’imputato, il Procuratore Generale acquisisce il diritto di impugnare la sentenza pronunciata al termine della messa alla prova con la possibilità, dunque, di travolgere il buon esito di un programma di trattamento ritenuto idoneo da Tribunale, Pubblico Ministero e UEPE.

Per essere ancora più chiari, nel momento in cui si interpreta l’art. 464 – quater includendo fra i soggetti legittimati a ricorrere anche il Procuratore generale si potrà sempre verificare quanto accaduto all’ente  nel caso di specie, ovvero che:

  • Viene formulata richiesta di sospensione del processo con messa alla prova;
  • l’U.E.P.E. (Ufficio di Esecuzione Penale Esterna) elabora, un programma di trattamento per la messa alla prova;
  • il Tribunale, sentite le parti, e, quindi, anche il Pubblico Ministero presente in udienza, reputa idoneo il programma di trattamento e dispone la sospensione del processo ammettendo l’ente alla prova;
  • il Pubblico Ministero di udienza non esercita il potere, espressamente riconosciutogli dalla legge (art. 464-quater, comma 7, c.p.p.), di impugnare l’ordinanza di ammissione dell’ente alla prova, dimostrando con ciò di non opporsi alla richiesta dell’ente;
  • nel corso del periodo di sospensione l’imputato provvede, conformemente a quanto previsto nel programma di messa alla prova elaborato dall’U.E.P.E., ad eliminare gli effetti negativi dell’illecito risarcendo il danno, e svolge il lavoro di pubblica utilità, consistito nel fornire ad un istituto religioso calzature di propria produzione;
  • il Tribunale, verificato il rispetto del programma concordato così come attestato dall’U.E.P.E. che nel corso del periodo di sospensione monitora costantemente il comportamento tenuto dal soggetto in prova, dichiara il reato estinto per l’esito positivo della messa alla prova.
  • Il Procuratore generale a distanza di tempo ed al termine del procedimento, può impugnare la sentenza che ha dichiarato estinto il reato, nonostante lo stesso rappresentante della accusa in udienza non si fosse opposto al momento di decidere se avviare o non avviare tutta la procedura per l’accesso ai lavori e la loro esecuzione.

Pare, davvero, inammissibile concepire che il buon esito della messa alla prova, l’affidamento dell’imputato che al suo impegno segua la estinzione del reato, l’impegno profuso dagli Enti come l’UEPE nell’organizzare, sovrintendere e relazionare sui lavori, la fine del procedimento, tutto possa essere rimesso in discussione, a distanza anche di molto tempo. Certo si dirà che il potere di ricorrere contro la Sentenza che dichiara estinto il reato riguarda il caso in cui al Procuratore generale non sia stata notificata l’ordinanza di ammissione ai lavori, ma rimane il fatto che, con una forzata interpretazione della legge, si attribuisce al Procuratore generale una facoltà di intervenire, a procedimento finito, per rimettere in discussione l’intero processo, nonostante il vaglio di un giudice che aveva emesso l’ordinanza e il mancato intervento dello stesso rappresentante dell’accusa in udienza, (unico) titolato – fino ad oggi –  secondo il (logico) tenore letterale della norma, ad intervenire prima dell’avvio della procedura. Una decisione, quella assunta dalle Sezioni Unite, che appare volta a garantire il potere di intervento del Procuratore Generale sacrificando i legittimi interessi dell’imputato che sarà chiamato ad affrontare il percorso di messa alla prova, istituto ispirato a criteri spiccatamente rieducativi e risocializzanti, senza poter fare affidamento sulla stabilità di una ordinanza di ammissione che, peraltro, comporta impegni risarcitori e  lavorativi anche molto onerosi; in questo quadro è  facile immaginare come una simile decisione possa compromettere il ricorso ad un istituto appositamente introdotto a scopo  deflattivo in un sistema sempre più ingolfato.