La acclarata commissione di un reato incluso nel catalogo del D.lgs 231 per il quale dunque è prevista la responsabilità della società oltre a quella della persona fisica sua esponente che l’ha materialmente commesso, non sembrerebbe nemmeno lasciare spazio alla domanda.

Anzi, ad un primo impatto potrebbe apparire addirittura illogico ipotizzare che per uno stesso fatto reato, si possano prefigurare esiti processuali opposti, e che a determinare le sorti del processo per l’ente, condanna o assoluzione, sia la sola forma in cui è costituita la società. Prova ne sia il numero, seppur esiguo, di sentenze di Cassazione che confermano precedenti condanne nel merito anche nei confronti di società unipersonali.

Eppure il rilievo che la società non possa essere condannata se unipersonale è tutt’altro che capzioso.

Il dato di partenza, ancora una volta, è rappresentato dalla norma, dalle finalità che persegue, quindi dalla sua ratio e da tutte le disposizioni che coerentemente tracciano il sistema dell’esimente del modello.

A quasi vent’anni dall’entrata in vigore del decreto 231, i concetti basilari che ne costituiscono l’impianto sono ormai un patrimonio comune e diffuso: la legge punisce la società che non si è saputa organizzare per impedire la commissione di reati nel suo interesse o vantaggio attraverso l’adozione l’attuazione e la vigilanza su un idoneo modello contenente le regole atte a prevenire la commissione dei reati da parte dei propri esponenti.

Se questo è chiaro, diventano chiare anche tutte le incongruenze che discenderebbero da una pronuncia di condanna emessa per lo stesso fatto sia contro la Società che contro il suo socio unico amministratore autore del reato.

Di fatto la legge presuppone che la società sia portatrice di interessi propri ed autonomi, quelli cioè che il reo intende far conseguire alla stessa mediante la commissione del reato, pertanto ed innanzitutto, quando la struttura della persona giuridica sia indistinguibile da quella fisica non si può configurare neppure in astratto il presupposto fondante l‘intera struttura delle norme volte a regolare la responsabilità dell’ente giuridico.

Viene a mancare, cioè, la ratio di fondo della normativa sulla responsabilità delle persone giuridiche la quale immagina contegni penalmente devianti tenuti da persone fisiche nell’interesse di strutture organizzative di un certo rilievo di complessità per cui si possano cioè considerare esse stesse centro di imputazione di rapporti giuridici distinto da chi ha materialmente operato.

Si pensi al caso affrontato recentemente dal Tribunale di Milano, Sentenza Gup 16.7.2020 n. 971, del socio unico di una S.r.l., che ricopriva anche il ruolo di presidente del Consiglio di Amministrazione, a cui veniva contestato di avere falsificato alcuni bollettini postali al fine di provare il pagamento di alcuni tributi dovuti al Comune e rimasti in realtà insoluti. L’interesse/vantaggio del risparmio conseguito simulando il pagamento dei bollettini è solo ed unicamente quello dell’amministratore condannato, non essendone neppure ipotizzabile uno della società distinto a quello del suo socio unico. Il caso, molto semplice, chiarisce però un principio generale che non può che valere per tutte le società unipersonali, almeno fino alla prova che anche in capo ad una società unipersonale si sia concretizzato un interesse o vantaggio distinto da quello dell’amministratore, ipotesi francamente inimmaginabile. Il Tribunale correttamente dunque assolve la (sola) società. Essendo chiaro che una eventuale condanna dell’ente che si fosse aggiunta a quella della persona fisica avrebbe tra l’altro realizzato in concreto un chiaro caso di ne bis in idem.

Quando si dice che un eventuale condanna si porrebbe in insanabile conflitto logico con le norme del decreto in quanto intendono punire la società per una colpa organizzativa, ci si riferisce poi, a tutto l’impianto normativo che non regge minimamente di fronte ad una situazione del tutto opposta come quella in cui si trova il socio unico di una società unipersonale il quale non solo agisce (peraltro dolosamente)  per un interesse proprio;  ma che prima avrebbe dovuto adottare  un modello atto ad impedire la commissione dei reati commessi da se stesso, garantendone la (auto) attuazione; modello da ritenersi idoneo e quindi tale da mandare esente la società da responsabilità solo se avesse contenuto adeguate misure di  (auto)vigilanza sui suoi stessi comportamenti.