Con la Sentenza della IV sezione penale n. 29584 depositata il 26.10.2020 la Corte si pronuncia su di un infortunio occorso a due lavoratori che impegnati nella esecuzione di lavori presso uno sito industriale, erano saliti sulla copertura del capannone, e poi erano caduti a seguito del cedimento di un pannello, precipitando nel solaio sottostante da un’altezza di circa tre metri, riportando le lesioni.

Dalle indagini effettuate, e secondo la ricostruzione non contestata, era emerso che la ditta era intervenuta nel cantiere in questione su incarico conferito verbalmente dal preposto del committente, preposto che aveva deciso di rivolgersi all’impresa al fine di velocizzare i lavori di gittata del cemento, per contratto già affidati dal committente ad altra ditta che prevedeva di operare con diverse modalità e tempi più lunghi.

La decisione del preposto, rimarca la Corte era stata assunta in totale spregio delle più elementari regole cautelari, poiché aveva permesso ad una ditta di intromettersi in lavori già commissionati ad altra, all’insaputa di questa, facendo entrare i suoi operai in cantiere senza darne avviso al direttore dei lavori e al coordinatore per l’esecuzione dei lavori.

Il fatto trova certamente origine in una condotta molto grave e irresponsabile del preposto, espressamente vietata dall’art. 92 del d.lgs. 81 del 2008, atteso che la sicurezza in cantiere discende dall’osservanza delle regole che impongono, sia precisi criteri di scelta delle impese idonee, sia il rispetto del piano di sicurezza e quindi della programmazione e modalità di esecuzione delle lavorazioni.

La Corte però, conferma la condanna anche della Società committente dei lavori, e lo fa affermando i seguenti principi:

  • la circostanza che le modalità di esecuzione dei lavori fossero state scelte da una delle vittime non assume alcun rilievo se non per aggravare la posizione delle due società. Nel solco delle note sentenze di condanna del datore di lavoro per infortuni verificatisi anche per negligenza del lavoratore, la Corte qui estende la responsabilità per l’infortunio oltre che alla Società di cui i due erano dipendenti, anche alla Società committente dei lavori nonostante la causa ultima dell’infortunio fosse la modalità di esecuzione del lavoro scelta da uno degli infortunati, poichè avrebbe dovuto impedire iniziative (del preposto) riservate ad altre figure della sicurezza e che una terza ditta, estranea ai lavori, si trovasse ad operare nel cantiere. Come in concreto il committente avrebbe potuto impedire l’iniziativa del preposto non è dato però saperlo, posto che la stessa Corte dà atto che la decisione di incaricare la ditta era stata presa autonomamente ed estemporaneamente dal preposto, fuori da ogni sua prerogativa, tenendo all’oscuro le persone (coordinatore e direttore dei lavori) che il committente stesso aveva designato proprio per occuparsi di evitare ciò che è accaduto.
  • Sussiste nel caso di specie un nesso fra la violazione delle regole cautelari che hanno causato l’infortunio e l’interesse dell’ente, che fonda la responsabilità dello stesso ai sensi del d.lgs 231/01.

Ed è qui che la Corte offre alcuni chiarimenti degni di nota anche rispetto a precedenti pronunce.

Ricordato che, pacificamente,  rispetto alle lesioni colpose in violazione di norme antinfortunistiche l’interesse e il vantaggio da verificare vanno rapportati alla finalità della condotta e non (di certo) all’evento lesioni, non voluto, la Corte passa in rassegna  le pronunce con cui si è  affermato  che  per poter essere imputato (anche) l’ente, la condotta dell’agente deve rappresentare l’espressione di una violazione sistematica di regole cautelari, consapevolmente assunta quale politica di impresa al fine di ridurre i costi, generare un risparmio o comunque un vantaggio economico.

Questo principio, in molte pronunce, è quello con cui si è cercato di rinvenire un criterio moderatore affinché non conseguisse indefettibilmente la responsabilità dell’ente, sempre e comunque, una volta dimostrati il reato presupposto e il rapporto di immedesimazione organica dell’agente; un criterio condivisibile di legittima imputazione del fatto all’ente che, ancorato alla sistemicità della violazione,  assicura un collegamento fra la condotta del soggetto agente e l’ente, in  modo che l’ente non risponda in virtù del mero e solo rapporto di immedesimazione organica dell’agente.

La Corte, tuttavia, ritiene tale criterio di imputazione eccentrico rispetto allo spirito della legge in quanto porterebbe a ritenere penalmente irrilevanti per l’ente, tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari.

In definitiva viene affermato che l’interesse può quindi sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata, allorché altre evidenze fattuali dimostrino un collegamento finalistico tra la condotta dell’agente (volta ad ed. al risparmio) e l’ente.

Si tratta senz’altro di una novità, ineccepibile nella teoria, al netto dei rischi della sua applicazione pratica, che valorizza moltissimo la valutazione dell’elemento probatorio nel complesso da parte del giudice al fine di scongiurare il rischio di far coincidere un modo di essere dell’impresa con l’atteggiamento soggettivo proprio ed esclusivo della persona fisica e indirettamente ci dimostra tutta l’importanza per le Società di dotarsi di un modello idoneo e di un codice etico. Che evidentemente non aveva l’ente che ha riportato la condanna.

Ed infatti attraverso il modello e il codice etico, l’ente quantomeno può far valere di  essersi dotata di procedure e presidi volti ad impedire la commissione del reato da parte dei propri esponenti e potrà andare esente da responsabilità se le persone, prendendo decisioni avventate ed a loro riferibili esclusivamente, come nel caso di specie, avranno inevitabilmente commesso il reato eludendo fraudolentemente i presidi contenuti nei modelli di organizzazione e di gestione.

Colpisce comunque che in qesto caso la Corte abbia confermato la condanna dell’ente dando contemporaneamente atto che il preposto aveva preso una decisione del tutto estemporanea tenendo all’oscuro la sua società committente dei lavori e quella che li avrebbe dovuti svolgere e da lui sostituita. Viene quindi da domandarsi, da una parte  quali caratteristiche debba avere il modello, per le Società che lo hanno, perchè possa essere ritenuto dal Giudice idoneo ad impedire condotte di questo tipo; dall’altra perchè una Società che non ha un modello, pur non avendolo, debba comunque rispondere di un fatto commesso da un preposto che ha agito tenendo all’oscuro i veritici e del tutto estemporaneamente, con una condotta quindi  non ricollegabile in nessun modo ad una sfera ulteriore e diversa da quella sua personale soggettiva.