Anche il datore di lavoro non troppo informato, è ormai conscio che al verificarsi di un infortunio inizierà quasi certamente nei suoi confronti un lungo processo, indipendentemente dal fatto che l’evento fosse facilmente evitabile con la normale diligenza esigibile da parte dei lavoratori e su cui contava di poter fare affidamento.
Vi è meno consapevolezza invece, del metro di giudizio utilizzato nelle aule dei Tribunali nei processi in materia di salute e sicurezza, che porta in molti casi i Giudici, anche della Suprema Corte, a sentenze di condanna del tutto stonate persino rispetto al (buon) senso comune.
Su tre argomenti in particolare – la formazione, la vigilanza, il comportamento abnorme del lavoratore che scagiona il datore di lavoro – che poi sono quelli su cui più si dibatte nei processi, si registrano orientamenti della Corte di Cassazione che all’analisi del giurista (mal)celano vere e proprie forzature ai principi che governano il diritto penale; sentenze solo apparentemente motivate, in astratto, ma totalmente disancorate dal caso concreto, disallineate rispetto alla legge, alla realtà sociale e culturale dei nostri giorni.
La formazione è un momento assolutamente imprescindibile per la prevenzione, un doveroso debito che ha il datore di lavoro nei confronti delle persone che prestano l’attività lavorativa nella sua impresa affinchè acquisiscano la consapevolezza dell’importanza di seguire nel lavoro le regole corrette a tutela loro, dei colleghi e dei terzi. Ma una volta che siano stati adeguatamente formati i lavoratori non è forse legittimo aspettarsi che agiscano secondo le regole, avendo gli strumenti per farlo? Fino a che punto deve spingersi l’attività di formazione?
In una risalente sentenza del 1994 (Cass. Pen., Sez. IV, 23.03.1994, n. 3483) la Corte di Cassazione ebbe ad affermare testualmente che quando la legge parla di formazione sui rischi specifici “non vuole certo significare che il destinatario della norma debba, di volta in volta, spiegare al lavoratore il modo di comportarsi in qualsiasi operazione elementare propria della sua attività e del suo livello professionale perché, in caso contrario, si finirebbe con l’offendere non tanto la professionalità quanto l’intelligenza dell’uomo-lavoratore e con l’addebitare una responsabilità obiettiva a colui che, in qualche modo, venga indicato come obbligato”.
In quella risalente sentenza la Corte di Cassazione escluse qualunque responsabilità in capo al datore di lavoro cui era contestato di non aver efficacemente spiegato ad un lavoratore le modalità di svolgimento di un’operazione in quanto l’omessa formazione riguardava “rischi di evidenza palmare ed elementare, a livello di qualsivoglia intelligenza”, trattandosi “di comprendere che i due ganci, che sorreggevano la pesante barra metallica, dovevano essere liberati contemporaneamente, per consentire un equilibrato appoggio della stessa sul punto di destinazione e, nello stesso tempo, la retrazione della corda collegata al braccio della gru”; “sarebbe come sostenere, argomentò la Corte, che il datore di lavoro di un operaio metalmeccanico debba fornire informazioni ai propri lavoratori su quale danno si produca ove, nel battere un manufatto metallico con un martello, non attenda che un suo collaboratore ritiri la mano con la quale sta disponendo il manufatto stesso”.
Simili principi, se erano assolutamente condivisibili nel lontano 1994, lo dovrebbero essere ancor di più oggi a valle di quel processo di responsabilizzazione del lavoratore che, configurato quantomeno dal D.L.vo 626/1994, il legislatore aveva voluto definitivamente consacrare con l’approvazione del Testo Unico del 2008.

Scorrendo la giurisprudenza più recente, si avverte, invece, la tendenza ad interpretare il dovere formativo / informativo del datore di lavoro in maniera estremamente estensiva fino a ricomprendere i rischi comuni, riconoscibili e prevenibili da chiunque, ed anche rischi del tutto estranei alla specifica mansione affidata al lavoratore infortunatosi. E’ bene rendersi pienamente conto fino a che punto si arriva.
Nel 2017 la Corte di Cassazione (Sez. IV, n. 27296/2017) viene chiamata a pronunciarsi sull’infortunio occorso ad un operaio intento a pulire con della soda caustica alcun macchie di olio e grasso presenti sul piazzale esterno di uno stabilimento industriale; in particolare, come viene ricordato dalla stessa Corte durante tale operazione, una piccola quantità di soda caustica entrava, da sopra, all’interno dello stivale in gomma dell’operaio che era stato indossato erroneamente sopra e non sotto il pantalone, in modo tale da non proteggere la gamba dall’ingresso di sostanze dall’apertura.
La soda caustica, entrata all’interno dello stivale, bagnava il calzino indossato dall’operaio che, avvertito un po’ di bruciore, si sciacquava il piede con acqua fredda, come gli era stato detto di fare, e poi si infilava nuovamente il calzino bagnato di soda caustica riprendendo l’attività di pulizia; nei giorni seguenti, anche tale circostanza è pacifica, il lavoratore tornava al lavoro indossando sempre lo stesso calzino e solo dopo quindici giorni si presentava al pronto soccorso, ove i sanitari riscontravano un’ustione chimica.
Per rispondere delle lesioni riportate dal lavoratore venivano tratti a giudizio il datore di lavoro dell’infortunato – amministratore unico della ditta cui erano state affidate le attività di pulizia dello stabilimento – ed anche, incredibilmente, il direttore dello stabilimento in qualità di committente.
Entrambi gli imputati venivano condannati sia in primo che in secondo grado nonostante fosse stato accertato che la sostituzione dell’indumento, ove effettuata, avrebbe di certo impedito il verificarsi dell’evento lesivo e cioè nonostante fosse pacifico che se il lavoratore avesse cambiato o lavato i calzini prima di tornare al lavoro nei quindici giorni seguenti non avrebbe riportato alcuna ustione.
Contro la sentenza di condanna ricorreva il solo committente che solo in terzo grado  veniva assolto dalla Corte di Cassazione, ma solo in applicazione del consolidato principio per cui deve andare esente da responsabilità il committente che non si è ingerito nell’attività della ditta con un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori affidati all’appaltatore.
E l’appaltatore, datore di lavoro dell’impresa di pulizie per cui lavorava l’infortunato?
Anche se non aveva presentato ricorso, la sentenza tiene a precisare che la responsabilità dell’evento al datore di lavoro era stata attribuita correttamente dalla Corte di Appello, per non aver puntualmente spiegato al dipendente la necessità di cambiare un indumento che è stato contaminato dalla soda caustica, anziché continuare ad indossare lo stesso indumento per quindici giorni, a diretto contatto con la cute.
Ma affermare che il datore di lavoro sia responsabile di un evento che si sarebbe potuto evitare sostituendo o lavando la biancheria intima con cadenza giornaliera, non significa estendere a dismisura il dovere formativo/informativo gravante sul datore di lavoro?
Per la Cassazione, che sembra sovrapporre il concetto di igiene personale a quello di igiene sul lavoro, pare di no.

Altro fulgido esempio di come venga inteso il dovere di formazione e informazione che la Legge assegna al Datore di Lavoro è ben rappresentato dalla sentenza n. 35492/2020 in cui la Corte di Cassazione, Sezione IV, esamina il ricorso presentato dalla presidente e legale rappresentante di una cooperativa di trasporto che era stata condannata per aver cagionato il decesso di un passeggero, disabile al 100 %, in seguito ad una caduta a terra dovuta al mancato allacciamento della cintura di sicurezza.
Nel giudizio di appello, in particolare, la colpa dell’imputata era stata ravvisata nella omessa formazione e informazione del personale dipendente in ordine all’utilizzo delle cinture di sicurezza, che la Corte, udite udite, giudica, “per nulla intuitivo e semplice, come ritenuto dalla difesa, tenuto conto delle caratteristiche dei soggetti ospitati (non collaborativi a causa della loro invalidità) e dei presidi da utilizzare e ritenendo non abnorme il comportamento – pur incauto – dell’autista e dell’assistente che non avevano effettuato il trasporto in condizioni di sicurezza, comportamento, peraltro, del tutto prevedibile, sotto il profilo soggettivo”.
Nessun accertamento per stabilire, almeno, se in effetti –  e contrariamente a quanto sembra più verosimile –  l’autista non fosse davvero capace ad allacciare le cinture; nessun accertamento su quanti passeggeri avessero le cinture allacciate e quanti no, su quanti incidenti o mancati incidenti si fossero verificati in passato; se poteva essere davvero verosimile che non fossero mai successi incidenti a disabili  benché sempre trasportati senza cintura perché l’autista non era capace ad allacciarle, in quanto non formato. Nulla. Della sciagura deve rispondere il legale rappresentante per omessa formazione. Ma è chiaro che così decidendo, la Corte configura come doveroso, un obbligo di formazione e informazione comprensivo di raccomandazioni di dominio comune come quelle, nel caso di specie, attinenti il rispetto delle prescrizioni contenute nel codice della strada, che non può che apparire del tutto pretestuoso.

Il disposto legislativo (art. 36 e 37 D.L.vo 81/2008) stabilisce chiaramente che la formazione e informazione nei confronti dei lavoratori riguarda i soli rischi specifici connessi all’attività affidata al singolo lavoratore. La lettera della norma dovrebbe impedire di dare all’obbligo un contenuto del tutto indefinito ed indefinibile. Eppure, si è creato un evidente disallineamento tra la lettera della legge e l’interpretazione che ne viene offerta dalla giurisprudenza; ciò si scorge chiaramente nella sentenza n. 29947/2020 della IV Sezione Penale relativa all’infortunio occorso a un addetto al carico di cereali all’interno di un camion.
In particolare, a quanto si apprende dalla lettura della sentenza, nel caso di specie, al datore di lavoro si contestava la responsabilità per l’infortunio occorso al lavoratore che rimaneva folgorato dal contatto del cassone ribaltabile del camion con una linea elettrica ad alta tensione. Lavoratore che aveva sollevato il cassone, nonostante le operazioni di movimentazione del camion fossero di esclusiva competenza del suo collega, essendo lui addetto al solo carico del camion.
Ma se la formazione/informazione dei lavoratori deve riguardare i rischi specifici della mansione cui sono addetti, non ne consegue forse che non si può imputare al datore di lavoro di non aver formato il lavoratore sui rischi derivanti dalla movimentazione del cassone contro le linee di alta tensione?
Nella stessa sentenza la Corte sembra attenersi al dettame della legge; tra le massime riportate si legge, infatti, che il datore di lavoro risponde dell’infortunio occorso al lavoratore in caso di violazione degli obblighi di portata generale, (…) e della formazione dei lavoratori in ordine ai rischi connessi alle mansioni, anche in considerazione al luogo in cui devono essere svolte.
Ma nella pratica la verifica di una formazione calibrata sui rischi connessi alla specifica mansione viene completamente omessa tanto che la stessa Corte conferma la condanna riprendendo un passaggio della sentenza di secondo grado secondo cui la decisione di smaltire l’acqua piovana prima di caricare il cereale – come ricordano i giudici del gravame del merito – appare una manovra in tutto sensata, verosimilmente richiesta proprio dall’azienda, essendo notorio che a contatto con l’acqua possano rapidamente verificarsi fenomeni di fermentazione e marcescenza del cereale.
Se lascia certamente perplessi constatare come la condanna del datore di lavoro venga confermata essendo solo verosimile, e mai accertato, che l’azienda, e quindi non necessariamente l’imputato, abbia richiesto al lavoratore di alzare il cassone, e non fosse stata invece una decisione assunta in via autonoma dal lavoratore o gli fosse stata ordinata da qualcuno sul posto, sorprende ancor di più che la Cassazione ometta di illustrare le ragioni per cui il datore di lavoro avrebbe dovuto formare ed informare il lavoratore sui rischi di una mansione affidata ad altri. Lascia poi perplessi leggere che di fronte ad un rischio così evidente, la sola formazione avrebbe certamente impedito il verificarsi dell’evento, nel senso che solo a formazione avvenuta lo stesso (con una probabilità logica verosimilmente prossima all’assoluta certezza) avrebbe bene provveduto a verificare, prima di effettuare la manovra, di non trovarsi sotto una linea elettrica e, successivamente, di entrare in contatto con le parti metalliche del proprio mezzo. Potere miracoloso della formazione dunque, unica e certa condizione per far si che il lavoratore facesse attenzione a non scontrare i cavi dell’alta tensione con lo scarrabile. Ed anche unica via di salvezza  per il datore di lavoro, o forse no: infatti a dispetto di quanto appena letto, l’esperienza, insegna, che neppure adibire il lavoratore alla mansione per cui è stato adeguatamente formato ed informato potrebbe essere sufficiente ad escludere la responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio occorso quando il lavoratore non si sia minimamente attenuto agli insegnamenti ricevuti.
Ne è dimostrazione la recente sentenza n. 652/2021 in cui la Terza Sezione della Cassazione Penale affronta l’infortunio occorso ad un pasticcere che, dopo aver infornato una notevole quantità di biscotti nel forno del laboratorio di pasticceria, tra i cui ingredienti vi era anche del liquore, veniva investito dall’esplosione di questo, riportando lesioni personali gravi.
Per tale evento veniva chiamato a rispondere e condannato il datore di lavoro, titolare della pasticceria, per non aver formato ed informato il lavoratore che all’interno di quel forno non potevano essere introdotti alimenti contenenti sostanze infiammabili. Da notare:

  • il pasticcere, professionista  e di lunga esperienza, probabilmente conosceva ricette e strumenti  meglio del titolare. Circostanza ritenuta ininfluente;
  • sul vetro esterno del forno utilizzato era presente una targa gialla, ben visibile, che avvisava della pericolosità di introdurre alimenti contenenti sostanze alcoliche. Dato pacifico e non contestato, che viene ritenuto ininfluente dalla Corte al fine di assolvere il titolare, in quanto il lavoratore aveva dichiarato al processo di non aver mai fatto caso alla targhetta (!);
  • ininfluente ai fini della assoluzione anche la circostanza che dal titolare era stato messo a disposizione un altro forno all’interno della pasticceria, in cui potevano essere inseriti prodotti contenenti sostanze alcoliche (!);
  • ininfluente infine, la firma apposta sul verbale di informazioni annuale in cui il dipendente aveva sottoscritto di aver ricevuto informazioni sui macchinari in uso. La Corte ha ritenuto irrilevante la circostanza, incredibilmente, avendo il pasticcere dichiarato a processo di aver firmato il verbale senza leggerlo (!).

Di fronte a tanti esempi, viene davvero da chiedersi che cosa si pretende dal Datore di lavoro perché non gli si possa rimproverare di essere comunque penalmente responsabile per gli infortuni dei suoi dipendenti.