A distanza di oltre vent’anni dalla entrata in vigore del decreto, la Suprema Corte si trova ancora a dover ricordare gli elementi che fondano la responsabilità dell’ente ed il percorso valutativo rimesso ai tribunali di merito nel momento in cui devono decidere di un’incolpazione all’ente; il fatto che la Corte pervenga ad annullare una sentenza di condanna emessa dalla Corte di Appello di Milano, il cui distretto è certamente fra i più attivi che padroneggiano la materia, sta certamente a significare quanto sia complesso, nel concreto, attenersi ai dettami della legge e lo sforzo da compiere per riuscire a valutare disgiuntamente  la responsabilità del reo, persona fisica che ha commesso il reato e la società di cui è esponente e superare quel comprensibile istintivo automatismo fra le due. Pregevole la sentenza, anche nella misura in cui raccomanda già in fase di formalizzazione de capo di imputazione da parte dell’accusa, di indicare in concreto tutti gli elementi che ai sensi del decreto devono fondare l’imputazione e che ricorrerebbero nel caso di specie.

La sentenza di condanna sottoposta all’esame della Suprema Corte riguardava un infortunio sul lavoro mortale, verificatosi a seguito di caduta da un ponteggio di dieci metri di altezza,  privo  di dispositivi di sicurezza (sponde laterali) per la prevenzione del rischio di cadute dall’alto.

Incolpata del fatto la società committente dei lavori,  chiamata a rispondere dell’illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-septies, comma 3, per aver tratto vantaggio dalla condotta del reato attribuito al suo amministratore unico; vantaggio consistito nel risparmio derivante dall’impiego, presso il cantiere anzidetto, di lavoratori solo formalmente dipendenti di dell’impresa appaltatrice, ma  in realtà sottoposti al potere direttivo della committente ed in quello consistente nella mancata messa a disposizione dei lavoratori medesimi di idonei mezzi di protezione individuale, con specifico riferimento ai sistemi di protezione contro le cadute dall’alto, all’omessa formazione specifica ai lavoratori medesimi in materia di montaggio/smontaggio dei ponteggi e all’assenza di un preposto a tali lavori effettivamente nominato e quindi retribuito dalla società. Ecco le parti salienti della motivazione con cui viene annullata la sentenza di condanna.

“Il Collegio rileva che, già dalla descrizione del capo d’accusa, non emerge con chiarezza il concreto profilo di responsabilità addebitato all’ente ai sensi della disciplina del decreto n. 231, avuto riguardo a quei “modelli di organizzazione e di gestione” richiamati dal D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 6 e 7, la cui efficace adozione consente all’ente di non rispondere dell’illecito, ma la cui mancanza, di per sé, non può implicare un automatico addebito di responsabilità.

La struttura dell’illecito addebitato all’ente risulta incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale intercorrente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno unicamente la funzione di irrobustire il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell’organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questo (così, in motivazione, Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo. Nello stesso senso, più recentemente, Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022, CARTOTECNICA GRAFICA VICENTINA SRL, Rv. 283247 – 01).

L’ente risponde per un fatto proprio e non per un fatto altrui ed al fine di eliminare il rischio di una responsabilità oggettiva derivante dal mero rapporto di immedesimazione organica fra ente ed autore del reato, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che a affermato “la necessità che sussista la c.d. “colpa di organizzazione” dell’ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo. Grava sull’accusa l’onere di dimostrare l’esistenza e l’accertamento dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell’interesse di questa; tale accertata responsabilità si estende dall’individuo all’ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo. Si tratta di un’interpretazione che attribuisce al requisito della “colpa di organizzazione” dell’ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, quale elemento costitutivo del fatto tipico, integrato dalla violazione “colpevole” (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Sotto questo profilo, la già citata Sez. 4, n. 32899/2021 ha efficacemente osservato che proprio l’enfasi posta sul ruolo della colpa di organizzazione e l’assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, convince che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente al Decreto n. 231 del 2001, artt. 6 e 7 e al D.Lgs. n. 81 del 2008, l’art. 30 non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente ma integra una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, la quale va però specificamente provata dall’accusa, mentre l’ente può dare dimostrazione della assenza di tale colpa. Pertanto, l’assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell’illecito dell’ente. Tali sono, oltre alla compresenza della relazione organica e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l’ente (c.d. immedesimazione organica “rafforzata”), la colpa di organizzazione, il reato presupposto ed il nesso causale che deve correre tra i due. Le superiori considerazioni spiegano le iniziali perplessità manifestate dal Collegio con riferimento alla struttura dell’illecito delineata nel capo di imputazione, il quale si limita ad addebitare all’ente un mero ‘vantaggiò (derivante nel risparmio di spesa come più sopra precisato), senza specificare in positivo in cosa sarebbe consistita la “colpa di organizzazione” da cui sarebbe derivato il reato presupposto, che è cosa diversa dalla colpa eventualmente riconducibile al soggetto apicale cui è ascritto il reato.

La motivazione della sentenza impugnata offre, a sua volta, un percorso argomentativo carente in punto di responsabilità dell’ente, per certi versi sovrapponendo e confondendo i profili di responsabilità da reato dell’amministratore/datore di lavoro dai profili di responsabilità da illecito amministrativo. Ciò appare evidente nella parte in cui la sentenza impugnata, sostanzialmente, addebita alla società il fatto di non aver svolto alcuna adeguata valutazione sui fornitori, nonostante fosse prevista nel modello, e di non avere predisposto a norma il ponteggio nonostante la sua corretta edificazione fosse prevista nel PIMUS, documento che afferma essere stato sul punto assolutamente disatteso: profili colposi ascrivibili all’amministratore della società, quale datore di lavoro tenuto al rispetto delle norme prevenzionistiche, ma non per questo automaticamente addebitabili all’ente in quanto tale. I Giudici di merito, in definitiva, fondano la responsabilità amministrativa della società sulla “genericità ed inadeguatezza” del modello organizzativo” senza tuttavia fornire positiva dimostrazione della sussistenza di una “colpa di organizzazione” dell’ente. Deve, invero, ricordarsi che la tipicità dell’illecito amministrativo imputabile all’ente costituisce, per così dire, un modo di essere “colposo”, specificamente individuato, proprio dell’organizzazione dell’ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all’ente di commettere il reato. In tale prospettiva, l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn). Ne consegue che, nell’indagine riguardante la configurabilità dell’illecito imputabile all’ente, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell’illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001. La ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, giustifica il rimprovero e l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l’ente risponde dell’illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui). Ciò rafforza l’esigenza che la menzionata colpa di organizzazione sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell’ente) responsabile del reato.

In conclusione, la Corte territoriale non ha motivato sulla concreta configurabilità, nella vicenda in esame, di una colpa di organizzazione dell’ente, né ha stabilito se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto. I giudici di merito, invece, avrebbero dovuto approfondire anche e soprattutto l’aspetto relativo al concreto assetto organizzativo adottato dall’impresa in tema di prevenzione dei reati della specie di quello di cui ci si occupa, in maniera tale da evidenziare la sussistenza di eventuali deficit di cautela propri di tale assetto, causalmente collegati con il reato presupposto”.