Il 24 Maggio la quarta sezione della Suprema Corte (Sentenza n. 20416/2021) si è pronunciata sul ricorso presentato dalla pubblica accusa contro la decisione del Tribunale del riesame di Catania che aveva annullato un decreto di sequestro preventivo emesso nei confronti del gestore di una casa di riposo, sotto indagine per il reato di epidemia colposa (artt. 438-452 cod. pen.) e per violazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro (artt. 65, 68 e 271 del d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81).

Il sequestro della casa di riposo era stato disposto dal pubblico ministero e poi convalidato dal giudice prima dell’annullamento da parte del Tribunale, in seguito alle note di indagine dei Carabinieri che avevano segnalato tra l’altro, la omessa doverosa integrazione del documento di valutazione dei rischi con le procedure previste dal D.P.C.M. 24 aprile 2020, leggasi protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020, e l’omesso aggiornamento dello stesso.

La Sentenza conferma l’annullamento del sequestro affermando due principi, entrambi di assoluta importanza.

Il primo attiene strettamente i procedimenti penali incardinatisi in oltre un anno di pandemia, proprio e soprattutto a causa dei contagi registrati nelle case di riposo o rsa, rispetto ai quali ci si può domandare se sia giuridicamente sostenibile una imputazione per il reato di pandemia colposa nei confronti dei gestori, a titolo di omissione, e cioè per non aver impedito la diffusione del virus all’interno delle strutture. Il delitto di pandemia (art. 438 C.p.) punisce – nella forma colposa con la reclusione fino a 12 anni – ”chiunque cagiona un’epidemia mediante diffusione di gemi patogeni”, e il dubbio interpretativo, dunque, potrebbe non essere così manifestamente infondato.

Con la Sentenza depositata, la Corte è però molto risoluta e sulla questione giudica assolutamente corretta la posizione del Tribunale del riesame che aveva annullato il sequestro uniformandosi ad un recente precedente degli stessi ermellini in cui si era stabilito che per il reato di pandemia «non è configurabile una responsabilità a titolo di omissione in quanto la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni”, richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera» (Sez. 4, n. 9133 del 12/12/2017, dep. 2018, Giacomelil); il reato quindi può essere legittimamente addebitato per espressa previsione della norma solo se, ed in quanto, l’epidemia sia conseguenza di un comportamento, sebbene colposo, pur sempre attivo, consistente ed estrinsecatosi nella diffusione di germi e batteri.

Sul reato, come si può immaginare, non si conta una ricchissima giurisprudenza, e non è affatto da escludere che il tema tornerà in discussione. Al momento va però registrato che la Corte, richiamato il suo stesso recente precedente, lo ha ribadito dichiarando infondato il ricorso del pubblico ministero che riteneva al contrario ammissibile la configurabilità del reato anche nella forma omissiva argomentando che l’inciso “mediante la diffusione di germi patogeni” contenuto nella norma non rappresenterebbe la peculiare modalità di realizzazione della condotta del reato, ma specificherebbe il tipo di evento che la norma penale punisce in caso di verificazione. 

Altrettanto interessante è il prosieguo della Sentenza. Afferma infatti la Corte che in ogni caso, anche a voler ammettere la configurabilità del reato nella forma omissiva “[..] nel decreto di sequestro preventivo non venivano dedotti né illustrati gli elementi e le ragioni logico-giuridiche in base ai quali la condotta omissiva ascritta all’indagato –  ovvero il mancato aggiornamento del DVR al “protocollo anticovid”-  sarebbe stata causalmente collegabile alla successiva diffusione del virus da Covid-19 tra i pazienti ed il personale dalla casa di riposo diretta dal ricorrente […]. Il Tribunale, prosegue la Corte,  ha pertanto ritenuto correttamente che, in applicazione delle teoria condizionalistica orientata secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, in assenza di qualsivoglia accertamento circa l’eventuale connessione tra l’omissione contestata al ricorrente e la seguente diffusione del virus non è possibile ravvisare, la sussistenza del nesso di causalità tra detta omissione e la diffusione del virus all’interno della casa di riposo. Ed invero, conclude la Corte, alla stregua del giudizio controfattuale, ipotizzando come realizzata la condotta doverosa ed omessa dall’indagato, non è possibile desumere “con alto grado di credibilità logica o credibilità razionale” che la diffusione/contrazione del virus Covid-19 nei pazienti e nei dipendenti della casa di riposo sarebbe venuta meno”.

E’ questo dunque il secondo principio degno di nota che riguarda, più in generale, tutti i processi per infortunio in cui è contestata la violazione delle norme in materia di salute e sicurezza.

Spesso infatti nei processi per infortunio si assiste alla incolpazione (anche) del datore di lavoro per una qualche carenza del Documento di Valutazione dei rischi, qualche volta rilevata ex post con grande rigorismo da zelanti operatori o consulenti tecnici delegati alle indagini ed a cui non di rado segue una pronuncia di condanna nel merito che poggia esclusivamente su quella stessa lacuna documentale.

In questo senso va recuperata e valorizzata anche tutta la parte della Sentenza  che nel confermare l’annullamento del sequestro ricorda come la eventuale carenza del Documento di Valutazione dei rischi, non aggiornato al Protocollo Condiviso di cui al D.P.C.M con le misure anticontagio, non è da sola sufficiente a configurare una responsabilità del Datore di Lavoro senza una correlazione causale con l’evento verificatosi. Principio che ovviamente vale e deve valere per tutti i rischi e casi di infortunio.