Proponiamo la lettura della Sentenza della Corte di Cassazione appena depositata, perché rappresenta un emblematico, e ci permettiamo di dire, pessimo, esempio, di come, dopo un infortunio assolutamente banale nella dinamica e fortunatamente anche nelle conseguenze, il datore di lavoro possa vedersi coinvolto in un processo per lesioni, che naturalmente arrivano a superare 40 giorni, e poi condannato. Al lettore più profano non sfuggiranno alcune forzature nella ricostruzione del fatto, come affermare l’effettiva esistenza di una prassi da parte dei lavoratori contraria alle regole che avrebbero impedito l’evento. I più avvezzi alla materia coglieranno anche come, in un’unità produttiva complessa quale quella in cui si è verificato il fatto, l’affermazione della colpa del Datore di Lavoro dovesse passare prima da un ben più pregnante vaglio dell’organizzazione aziendale.
Il caso in esame riguardava un infortunio occorso ad un lavoratore operaio litografo, che avendo necessità di una latta di smalto per alimentare la linea di produzione, si era recato con un carrello nel magazzino. Constatato che il prodotto di cui aveva bisogno non era sul pavimento del magazzino (tutti i giorni il fabbisogno veniva preparato a terra dai magazzinieri), ma sullo scaffale decideva di procurarselo da solo; dallo scaffale, ad una altezza di soli 130/140 cm afferrava con la mano destra il manico della latta cercando di sostenerla da sotto con la mano sinistra. Mentre spostava la latta, però, la stessa scivolava verso destra e finiva per gravare con tutto il suo peso, di circa 25 kg, sul braccio destro. Ne conseguivano un «trauma distrattivo-contusivo della spalla destra» dal quale derivava una malattia di durata superiore ai quaranta giorni.
Il Datore di Lavoro veniva imputato di aver provocato l’infortunio per colpa specifica, consistita nella violazione dell’art. 168 d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, e, in particolare, per non aver adottato le misure organizzative necessarie e non aver previsto l’uso di appropriate attrezzature meccaniche al fine di evitare la movimentazione manuale dei carichi da parte dei dipendenti.
Col primo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva ipotizzata e l’evento. Osserva che la sentenza impugnata si è limitata ad affermare che sarebbe stato violato l’art. 168 d.lgs. n. 81/08 senza specificare cosa il datore di lavoro avrebbe dovuto fare, in aggiunta alle concrete misure già previste e attuate, per evitare l’evento. Rileva che, come emerso dall’istruttoria dibattimentale, nel magazzino operava una cooperativa i cui dipendenti avevano il compito di sistemare sul pavimento le latte necessarie alle lavorazioni secondo l’ordine di produzione giornaliero e dovevano intervenire per portare a terra (utilizzando appositi muletti) le latte posizionate sugli scaffali che fossero eventualmente risultate necessarie.
Col secondo motivo, il ricorrente lamenta erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione con riferimento all’ipotizzata esistenza di una prassi operativa difforme rispetto a quella stabilita e alla possibilità che il datore di lavoro ne fosse informato. Osserva, in particolare, che il rapporto di dipendenza del personale di vigilanza dal datore di lavoro non costituisce di per sé prova né della conoscenza né della conoscibilità da parte di quest’ultimo di prassi aziendali difformi rispetto a quelle stabilite e tale conoscenza e conoscibilità sono imprescindibili per l’affermazione della responsabilità a titolo di colpa.
3.3. Col terzo motivo, la difesa rileva che, secondo la sentenza impugnata, il lavoratore infortunato si attenne ad una prassi comune difforme rispetto alle istruzioni impartite dal datore di lavoro. Contesta tale ricostruzione sostenendo che la stessa sarebbe frutto di travisamento della prova essendo stata omessa la valutazione di emergenze probatorie di segno inverso e travisato il contenuto di alcune deposizioni testimoniali.
I motivi di ricorso vengono giudicati infondati.
Per ragioni di logica espositiva, la Corte esamina per primo il terzo motivo di ricorso che riguarda la ricostruzione dei fatti sui quali si fonda l’affermazione della penale responsabilità. E lo fa con queste parole:
La difesa sostiene che la Corte territoriale avrebbe ignorato «numerose testimonianze raccolte in dibattimento» (in specie, le deposizioni di OMISSIS) dalle quali emergerebbe che le latte necessarie per la lavorazione erano collocate giorno per giorno sul pavimento del magazzino e, se i lavoratori avevano bisogno di latte diverse, collocate sugli scaffali, dovevano rivolgersi ai magazzinieri perché provvedessero alla messa a terra con l’aiuto di un mezzo meccanico. Sostiene, inoltre, che la Corte avrebbe travisato la testimonianza di OMISSIS affermando che gli stessi avrebbero «riconosciuto che in concreto vi era la possibilità che gli operai prelevassero personalmente le latte […] per garantire un rapido rifornimento del materiale» e desumendo da ciò l’esistenza di una prassi difforme rispetto alle istruzioni operative, mai affermata dai testimoni. Osserva in proposito che la possibilità di una occasionale violazione della regola non prova l’esistenza di una prassi difforme conosciuta o conoscibile da parte del datore di lavoro. Si deve premettere che la sentenza impugnata esamina i motivi di appello con criteri omogenei a quelli del primo giudice e opera frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza. Nel caso in esame, dunque, vi è concordanza tra i giudici di merito nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione. Conseguentemente, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo e, ai fini della decisione del presente ricorso, le due sentenze devono essere lette congiuntamente (cfr. tra le tante: Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595).
Dalla lettura delle sentenze di merito emerge che le deposizioni testimoniali cui il ricorrente fa riferimento non sono state affatto ignorate. La Corte di appello sostiene infatti che dall’istruttoria dibattimentale è emersa la prova dell’esistenza di una procedura regolare secondo la quale le latte avrebbero dovuto essere preventivamente poste a terra da parte della cooperativa che gestiva il magazzino e, ove la latta necessaria non fosse stata collocata sul pavimento, il lavoratore che ne aveva bisogno avrebbe dovuto chiamare un addetto dotato di muletto per prelevarla dal ripiano. Pur muovendo da questa premessa, la sentenza di appello sottolinea che, dalle deposizioni dei testi Omissis, è emersa una prassi difforme in forza della quale, se avevano fretta e non trovavano a terra le latte di cui avevano bisogno, i lavoratori le prendevano autonomamente dagli scaffali.
Dalla sentenza di primo grado emerge che, secondo quanto riferito dalla persona offesa e da G.P. (litografo come B.C.), quando gli operai avevano bisogno urgente di materiale si recavano in magazzino e lo prendevano da soli; ai dipendenti non era stato raccomandato di chiamare un magazziniere nel caso in cui la latta necessaria fosse collocata sugli scaffali e, solo dopo l’infortunio occorso a B.C., furono impartite specifiche istruzioni in tal senso. La sentenza di primo grado precisa che, secondo B.C. e G.P., il capo reparto G.G. sapeva di questa prassi e anche A.V., responsabile della sicurezza, ne era informato. Riferisce, inoltre, che l’operazione di cui si tratta non era esaminata nel documento di valutazione del rischio (dal che si desume che la procedura operativa ritenuta esistente dalla Corte di appello non era codificata in forma scritta).
Come il ricorrente riferisce, G.G. e A.V., sentiti quali testimoni in udienza, hanno negato di essere a conoscenza della prassi per cui gli operai prelevavano da soli le latte e tuttavia non hanno escluso che qualcuno, per far prima, potesse farlo senza attendere l’arrivo del magazziniere. A.V., in particolare, ha dichiarato «non mi è mai accaduto di vedere, poi può anche darsi che qualcuno abbia preso per… magari per fare prima…».
I giudici di merito hanno desunto da tali dichiarazioni che la possibilità di una movimentazione manuale delle latte collocate sugli scaffali non fosse esclusa e, di conseguenza, che il comportamento tenuto da B.C. non fosse imprevedibile, né inevitabile, né abnorme. Ciò, a maggior ragione, perché, come la sentenza di primo grado riferisce (pag. 5 della motivazione): le procedure sulla movimentazione dei carichi furono dettagliate solo dopo l’infortunio adempiendo alle prescrizioni dei tecnici della prevenzione; l’operazione che determinò l’infortunio non era specificata nel documento di valutazione dei rischi; il tipo di smalto di cui B.C. aveva bisogno veniva utilizzato di rado e la necessità di prendere una latta di quel tipo non era frequente.
Alla luce di quanto esposto, non può dirsi che sia stata omessa la valutazione di elementi probatori acquisiti nel processo e potenzialmente decisivi ai fini della decisione, sicché deve essere escluso il vizio di travisamento della prova per omissione (cfr. Sez. 6, n. 8610 del 05/02/2020, P., Rv. 278457). Neppure può ritenersi che sia stata introdotta nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo. La Corte di appello, infatti, ha puntualmente riferito che G.G. e A.V. negarono di essere a conoscenza di una prassi difforme rispetto a quella indicata, ma ha preso atto che nessuno dei due testimoni ha escluso che qualcuno, per far prima, potesse prendere le latte dagli scaffali senza attendere l’arrivo del magazziniere. Non si può sostenere allora che il dato probatorio sia stato trasposto in modo inesatto nel ragionamento del giudice di merito o distorto nel suo significato e le censure del ricorrente finiscono per esaurirsi nella richiesta di una rilettura degli elementi di prova, inammissibile nel giudizio di legittimità.
Col primo motivo il ricorrente lamenta vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva ascritta al datore di lavoro e l’evento. Il ricorrente si duole che la sentenza impugnata si sia limitata a ritenere sussistente la violazione dell’art. 168 d.lgs. n. 81/08 senza chiarire se l’evento verificatosi rappresentasse una concretizzazione del rischio che la regola cautelare mira a prevenire e senza verificare se quel rischio fosse governabile da parte del datore di lavoro o piuttosto si sia concretizzato perché il lavoratore contravvenne a un divieto.
Si è già detto che, secondo i giudici di merito, l’istruttoria dibattimentale ha provato che la movimentazione manuale delle latte collocate sugli scaffali, non era esclusa nella pratica operatività dell’impresa e poteva accadere che i dipendenti procedessero in tal senso quando era necessario prelevare materiale che non fosse stato collocato sul pavimento in base alle esigenze della produzione (casi non frequenti, ma neppure isolati). Da questo i giudici di merito hanno desunto: da un lato, che, nel prelevare la latta dallo scaffale, B.C. non tenne un comportamento abnorme; dall’altro che egli non violò un divieto e, soprattutto, non un divieto esplicito al cui rispetto era stato formato.
Si deve convenire col ricorrente che la sentenza impugnata non individua con chiarezza la condotta alternativa doverosa, ma si limita ad affermare che fu violato l’art. 168 d.lgs. n. 81/08. La sentenza di primo grado afferma però (facendo riferimento anche all’art. 2087 cod. civ.) che il datore di lavoro avrebbe dovuto istruire i lavoratori «sui rischi connessi alle attività lavorative svolte», «adottare tutte le opportune misure di sicurezza», esercitare «il controllo, continuo ed effettivo circa la concreta osservanza delle misure predisposte» così da evitarne la disapplicazione (pag. 7 della motivazione) . Questa sentenza (il cui impianto motivazionale è ripreso dalla sentenza impugnata) individua, dunque, la condotta omessa nell’incompleta valutazione del rischio; nella mancanza di una procedura operativa volta a prevenire la movimentazione manuale; nella mancata vigilanza sul rispetto delle misure previste (ancorché non formalizzate) e, specularmente, individua la condotta alternativa doverosa nel compimento delle attività omesse. La Corte di appello ha integrato questa motivazione con specifico riferimento ai commi 1 e 2 dell’art. 168 d.lgs. n. 81/08, che prevedono l’adozione di misure organizzative al fine di evitare «la necessità di una movimentazione manuale dei carichi da parte dei lavoratori» (art. 168 comma 1) e di ridurre il rischio conseguente a tale movimentazione manuale (art. 168 comma 2).
La motivazione, complessivamente valutata, non può essere ritenuta carente, contraddittoria o illogica, e certamente non contrasta con i principi di diritto che disciplinando la materia. I giudici di merito hanno valutato la tesi difensiva, secondo la quale l’infortunio fu determinato dal fatto che B.C. contravvenne a un divieto e l’hanno ritenuta infondata osservando: da un lato, che il comportamento tenuto dall’infortunato era «usualmente posto in essere dai lavoratori»; dall’altro, che egli non aveva ricevuto specifiche e puntuali indicazioni in senso opposto. Si tratta di conclusioni conformi al costante orientamento di questa Corte di legittimità, secondo la quale un comportamento, anche avventato, del lavoratore, se realizzato mentre egli è dedito al lavoro affidatogli, può essere invocato come imprevedibile o abnorme solo se il datore di lavoro ha adempiuto tutti gli obblighi che gli sono imposti in materia di sicurezza sul lavoro (Sez. 4, n. 12115 del 03/06/1999, Grande A., Rv. 214999; Sez. 4, n. 1588 del 10/10/2001, Russello, Rv. 220651). A ciò deve aggiungersi che, in caso di assenza delle cautele volte a governare anche il rischio di imprudente esecuzione dei compiti assegnati ai lavoratori, l’imprudenza di costoro non configura un rischio «eccentrico», idoneo ad escludere il nesso di causa tra la condotta o l’omissione del datore di lavoro e l’infortunio (Sez. 4, n. 27871 del 20/03/2019, Simeone, Rv. 276242; Sez. 4, n. 7364 del 14/01/2014, Scarselli, Rv. 259321).
Nel caso di specie – come emerge dalle sentenze di merito – il comportamento di B.C. non determinò l’attivarsi di un rischio eccentrico rispetto a quello prevedibile, e l’evento lesivo si verificò perché quel rischio non fu prevenuto in maniera adeguata: il prelievo delle latte in magazzino e il rischio conseguente non furono presi in esame nel documento di valutazione del rischio; non fu prevista una procedura operativa volta a prevenire la movimentazione manuale delle latte. La decisione assunta non è dunque censurabile né sotto il profilo dell’identificazione del rischio concretizzatosi (esattamente quello che l’art. 168 d.lgs. n. 81/08 mira a prevenire), né per quanto riguarda le regole cautelari applicabili. Neppure è censurabile, perché coerente con le emergenze istruttorie, l’identificazione della condotta alternativa doverosa, individuata nella predisposizione di una apposita procedura per lo spostamento delle latte di smalto dallo scaffale al pavimento e da lì al reparto di produzione e in una puntuale formazione e informazione degli addetti in ordine al rispetto della stessa, condotte che avrebbero impedito il verificarsi dell’evento.
La sentenza di primo grado fa espresso riferimento al mancato adempimento di un compito di vigilanza e la sentenza impugnata lo evoca quando parla di una prassi difforme rispetto alle regole operative. Anche su questo punto la motivazione resiste ai rilievi del ricorrente. Non risulta infatti (né il ricorrente lo sostiene) che C.G., quale Presidente del Consiglio di Amministrazione della società, avesse conferito deleghe in materia di sicurezza e, in assenza di deleghe, l’obbligo di vigilare sul concreto rispetto delle regole in materia di prevenzione grava sul datore di lavoro. Peraltro, le sentenze di merito hanno individuato condotte doverose non delegabili (valutazione dei rischi relativi alla specifica fase di produzione, formazione e informazione dei dipendenti in relazione ad essi) la cui omissione ha avuto rilevanza causale nel verificarsi dell’evento, sicché, quand’anche le funzioni di vigilanza fossero state validamente delegate, la responsabilità dell’odierno ricorrente non potrebbe essere esclusa.
Col secondo motivo, il ricorrente affronta il tema della colpa. Osserva che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, essendo imposta dal principio di colpevolezza, oltre alla verifica della sussistenza della violazione di una regola cautelare che il garante fosse tenuto a rispettare e della rilevanza causale di tale violazione rispetto all’evento, anche la verifica della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (fra le tante: Sez. 4, n. 43966 del 06/11/2009, Morelli, Rv. 24552601). La tematica involge il profilo della c.d. causalità della colpa, che va individuata nella capacità soggettiva dell’agente di osservare la regola cautelare, ovvero nella concreta possibilità di pretenderne l’osservanza e nella esigibilità del comportamento dovuto.
Come si è detto, la sentenza di primo grado riferisce che il documento di valutazione del rischio predisposto dalla società nulla diceva riguardo alla «specifica fase lavorativa» nella quale si verificò l’infortunio. Dalle sentenze emerge, ancora, che la procedura secondo la quale le latte necessarie per la lavorazione erano collocate giorno per giorno sul pavimento del magazzino e, se i lavoratori avevano bisogno di latte diverse, collocate sugli scaffali, dovevano rivolgersi ai magazzinieri perché provvedessero alla messa a terra con l’aiuto di un mezzo meccanico, non era codificata e fu espressamente prevista solo dopo l’infortunio. I testi OMISSIS, inoltre, hanno dichiarato che, solo dopo l’infortunio, furono fornite a tutti i lavoratori istruzioni precise riguardo al compimento di tali operazioni e, con motivazione non contraddittoria né illogica, i giudici di merito hanno ritenuto che le deposizioni dei testimoni a discarico non fossero idonee a smentirli.
Si deve allora ricordare che «il datore di lavoro è tenuto a redigere e sottoporre ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008, all’interno del quale deve indicare in modo specifico i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro e le misure precauzionali ed i dispositivi adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori» e, anche quando la redazione di questo documento sia stata affidata a terzi (circostanza che peraltro il ricorrente non deduce), il datore di lavoro non è esonerato «dall’obbligo di verificarne l’adeguatezza e l’efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi alle lavorazioni in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata» (Sez. 4, n. 27295 del 02/12/2016, dep. 2017, Furlan, Rv. 270355; Sez. 4, n. 22147 del 11/02/2016, Marini, Rv. 266859; Sez. 4, n. 20129 del 10/03/2016, Serafica, Rv. 267253).
A ciò deve aggiungersi che il contenuto qualificante e minimo del documento di valutazione dei rischi deve essere costituito, oltre che da una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa, anche dall’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati e che, in una recente pronuncia, è stato ritenuto inadeguato un documento di valutazione del rischio che, pur avendo individuato i pericoli dovuti alla movimentazione manuale dei carichi, aveva omesso di indicare le «misure preventive da adottarsi nelle specifiche situazioni» (Sez. 3, Sentenza n. 12940 del 12/01/2021, Carpentieri, Rv. 281238).
La condotta doverosa lecita dunque, nel caso concreto, era esigibile e C.G. era tenuto ad attuarla trattandosi di un obbligo gravante sul datore di lavoro e non delegabile. Non rileva in contrario che C.G. potesse non essere informato del mancato rispetto delle procedure che erano state decise atteso che, per quanto emerge dalle sentenze di merito (e il ricorso non fornisce argomenti in contrario), tali procedure non erano state formalizzate, né inserite nel documento di valutazione del rischio, né spiegate ai dipendenti.
Per quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato. Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.