Ci concediamo un piccolo sconfinamento in un campo non nostro, quello del diritto del lavoro, altrettanto impattante sulla vita delle imprese e le cui questioni spesso si intrecciano con quelle penalistitiche, e diamo volentieri spazio ad un intervento recentemente pubblicato dall’Avv. Antonello Di Rosa dello Studio MMBBA di Roma, con cui si è creata ormai da tempo una grande sinergia e sintonia. Il tema, molto discusso, è quello dell'”art.18″.
Con la sentenza n. 13063/2022 la Corte di Cassazione ha dichiarato la illegittimità di un licenziamento adottato dal datore di lavoro in presenza di una declaratoria contrattuale (art. 40 CCNL di settore) – formulata in via esemplificativa – nell’ambito della quale veniva punito, con una sanzione disciplinare conservativa, il comportamento del lavoratore per un fatto sostanzialmente analogo (id est “assenza dal domicilio ad una visita di controllo”) a quello oggetto di vaglio critico da parte della Corte (mancata comunicazione del diverso domicilio).
Nello specifico, la Corte di legittimità ha ripercorso gli arresti giurisprudenziali più recenti in tema di svolgimento da parte del dipendente di altra attività lavorativa o extralavorativa in costanza di assenza dal lavoro per malattia richiamando i seguenti consolidati principi di diritto:
i. il lavoratore assente per malattia non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un’attività ludica o di intrattenimento, da ritenersi anche espressione dei diritti della persona;
ii. la nozione di malattia rilevante ai fini della sospensione della prestazione lavorativa ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità abbia determinato, per la sua intrinseca gravità e/o per la sua incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale incapacità al lavoro del medesimo;
iii. il compimento di altra attività da parte del lavoratore assente per malattia non può essere ritenuta a priori “disciplinarmente irrilevante” ma può giustificare anche la sanzione del licenziamento, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia nell’ipotesi in cui la diversa attività sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando una sua fraudolenta simulazione, sia quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura e alle caratteristiche della patologia denunciata ed alle mansioni svolte, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche solo potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del dipendente dovendo essere salvaguardato “l’interesse creditorio del datore di lavoro all’effettiva esecuzione della prestazione dovuta”;
iv. il mancato svolgimento della prestazione lavorativa in conseguenza dello stato di malattia del dipendente, intanto trova tutela nelle disposizioni contrattuali e codicistiche, in quanto non sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore; la valutazione del giudice di merito in ordine all’incidenza sulla guarigione dell’altra attività accertata ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui lo stesso, pur essendo malato e (per tale motivo) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge un’altra attività che può pregiudicare il futuro tempestivo svolgimento della sua attività lavorativa.
v. nella specie, a venire in considerazione è la valutazione di tipo prognostico riguardo l’idoneità della condotta contestata, che costituisce indice di scarsa attenzione del lavoratore per la propria salute e per i relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, a pregiudicare, anche solo potenzialmente, il rientro in servizio del dipendente.
Al netto dei principi sopra richiamati, la sentenza in commento merita di essere segnalata sotto un duplice rilevante profilo:
a. in primo luogo nella misura in cui, nel richiamare i contrapposti orientamenti giurisprudenziali in tema di riparto degli oneri probatori nel caso di un lavoratore assente per malattia che sia stato sorpreso nello svolgimento di altre attività, ha affermato che “… in materia di licenziamento, l’art. 5 della l. n. 604 del 1966 detta la regola generale in base alla quale: “l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro … l’onere della prova deve interessare la sussistenza di un evento che giustifica la cessazione del rapporto di lavoro in relazione alla singola fattispecie in considerazione … in ossequio al canone di fonte legale che accolla al datore di lavoro il peso di provare tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento, tale parte deve fornire in giudizio la prova di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato. Ne discende coerentemente che, avuto riguardo alle ipotesi prefigurate nella contesa in esame, chi licenzia non può limitarsi a fornire la prova che il lavoratore abbia svolto in costanza di malattia altra attività … ma deve anche provare che la malattia era simulata ovvero che la diversa attività posta in essere dal dipendente fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio …”.
b. in secondo luogo in quanto, dopo aver ribadito che le nozioni di giusta causa e di giustificato motivo non vincolano il giudice ad esclusione dei casi in cui la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa, rileva che “al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando tale operazione di interpretazione nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo …”.
In linea con l’intento di erosione dell’impianto normativo delineato dalla legge Fornero oltre che dal D. Lgs. n. 23/2015, la lettura suggerita (recte, imposta) dalla Corte di legittimità è destinata ad allargare l’ambito di applicazione della reintegrazione, perché la elencazione dei casi cui è associata la sanzione disciplinare «non risolutiva del rapporto di lavoro» è suscettibile di essere estesa a fattispecie che non sono menzionate dal ccnl e che hanno, secondo l’apprezzamento del giudice, un minore disvalore disciplinare.
In conclusione, se il CCNL prevede un’elencazione esemplificativa e non tassativa delle fattispecie inadempienti cui è ricollegata la sanzione conservativa, il giudice può farvi rientrare altri fatti (ritenuti) meno gravi non previsti dal Ccnl.
Avv. Antonello Di Rosa