La circostanza che il risparmio conseguito per la mancata adozione delle misure antiinfortunistiche sia stato minimo – pur a fronte delle spese ingenti che la società affronta per la manutenzione e la sicurezza – non assume sempre rilievo scriminante per l’ente. Non ha infatti applicazione generale il principio secondo cui, “ove il giudice accerti l’esiguità del risparmio di spesa derivante dall’omissione delle cautele dovute”, per poter affermare che il reato è stato realizzato nell’interesse dell’ente “è necessaria la prova della oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto su quelle della tutela dei lavoratori” (Sez. 4, n. 22256 del 03/03/2021, Canzonetti, Rv. 281276).
Tale principio può operare soltanto “in un contesto di generale osservanza da parte dell’impresa delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro” e in mancanza di altra prova che la persona fisica, omettendo di adottare determinate cautele, “abbia agito proprio allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica”. Può applicarsi, dunque, soltanto in situazioni nelle quali l’infortunio “sia plausibilmente riconducibile anche a una semplice sottovalutazione del rischio o ad un’errata valutazione delle misure di sicurezza necessarie alla salvaguardia della salute dei lavoratori” e non quando, quel rischio sia stato valutato esistente dallo stesso datore di lavoro, e le misure per prevenirlo, indicate nel documento di valutazione del rischio, siano state poi consapevolmente disattese per un lungo periodo di tempo.
Il principio, pienamente condivisibile, è stato affermato dalla Corte nell’ambito di una vicenda che riportiamo seppur in estrema sintesi, al fine di far avere piena contezza delle responsabilità di impresa.
In fatto, un lavoratore che stava attraversando il piazzale dello stabilimento adibito al deposito e alla movimentazione delle merci era stato investito da un muletto che procedeva in retromarcia ed in conseguenza dell’incidente aveva riportato lesioni da schiacciamento al piede sinistro, dalle quali era derivata una malattia di durata superiore a quaranta giorni.
Per l’infortunio erano stati chiamati a processo il datore di lavoro per il reato di lesioni e la società ai sensi del d.lgs 231/2001. La colpa del datore di lavoro, individuata nel non aver predisposto una segnaletica orizzontale idonea a individuare vie di circolazione sicure all’interno del piazzale (art. 163, comma 1 D.Lgs. 81/2008), non aver provveduto alla manutenzione del carrello elevatore, che aveva il cicalino di segnalazione della retromarcia non funzionante (art. 71, comma 4,lett. a) D.Lgs. 81/2008) e per non aver dotato il carrello elevatore di uno specchietto retrovisore (art. 15 D.Lgs. 81/2008). La Corte conferma sia la condanna nei confrontidel datore di lavoro che quella nei confronti della società.
La responsabilità dell’ente, tuttavia, viene affermata attraverso una mera deduzione su cui è lecito nutrire più di una perplessità e che ci fa apprezzare il rischio che da un principio giusto si possa far discendere una conclusione molto meno condivisibile. Secondo la Corte infatti, la mancanza della segnaletica orizzontale in un piazzale nel quale “erano accumulate grandi quantità di merci” e vi erano “numerosi spostamenti in contemporanea di uomini e mezzi“, non poteva che essere frutto della volontà di organizzare il lavoro in modo da consentire un non regolamentato passaggio di veicoli e mezzi, ovvero secondo modalità di lavoro “sicuramente molto meno dispendiose” e finalizzate quindi ad un risparmio di spesa.