Diamo volentieri risalto alla Sentenza Cass. Pen. Sez. IV n.836 del 13.01.2022, con cui la Corte ha annullato la Sentenza di condanna per l’infortunio occorso ad un lavoratore addetto all’utilizzo di un tornio che al fine di prelevare il pezzo dopo la tornitura aveva infilato la mano destra, indossante un guanto, nella zona di lavoro della macchina quando ancora gli organi erano in movimento ed al fine di arrestare la macchina, aveva azionato la leva di frizione anziché il freno a pedale, con la conseguenza che la rotazione non si era immediatamente interrotta ma aveva continuato per inerzia ancora per qualche secondo, sicché egli aveva toccato il mandrino con la mano ed il guanto rimasto impigliato aveva trascinato la mano a contrasto con la torretta.
Del fatto erano stati chiamati a rispondere il datore di lavoro al quale si rimproverava di non aver individuato il rischio connesso al pericolo derivante dal possibile contatto accidentale delle parti del corpo esposte del lavoratore con le parti in movimento del tornio, ed in particolare di non aver munito il macchinario di uno schermo frontale di protezione; il “responsabile della sicurezza” (?), per aver sottovalutato il rischio derivante dall’utilizzo del tornio in assenza di protezione frontale; ed il legale rappresentante della ditta produttrice del tornio, per aver venduto un macchinario sprovvisto di apposita protezione dagli organi in movimento.
La difesa aveva invano sostenuto nei due precedenti gradi di giudizio che il macchinario era conforme alla norma di riferimento UNI EN 12840/2003, che lo identifica come utensile tornio di tipo 1, munito di uno schermo paraspruzzi che non era dunque preposto a proteggere la zona di lavoro da possibili interferenze fra le parti in movimento e gli arti dell’operatore, date le sue ridotte dimensioni. Che d’altra parte, uno schermo in grado di coprire tutto il campo di lavoro della macchina ne impedirebbe e nel caso di specie ne avrebbe impedito l’utilizzo. Il “riparo” del tornio era costituito dal “carter” posto sopra il mandrino, avente la funzione di impedire all’operatore l’accesso alle zone in movimento e l‘infortunio si era, invero, verificato perché il lavoratore, invece di usare il freno a pedale, aveva azionato la leva a frizione e, contemporaneamente, aveva fermato manualmente il mandrino con l’uso di guanti. Inoltre, l’accusa era stata costruita indicando, da un lato come assolutamente necessaria la presenza del pulsante di emergenza e dall’altro come la sua assenza rendesse parimenti necessario lo schermo e che si era invece dimostrato che il pulsante di emergenza era sostituito da una misura assai più sicura, costituita dal freno pedale, per cui la presenza dello schermo diventava non più necessaria e comunque si delineava un fatto omissivo completamente diverso nella sua struttura.
Nell’accogliere i ricorsi, la Corte esordisce con una enunciazione molto chiara sui limiti dei doveri impeditivi del datore di lavoro, che rende la Sentenza davvero degna di nota. Sul tema in questione, infatti, siamo abituati a confrontarci con un orientamento della giurisprudenza tutt’altro che condivisibile e troppo esigente, che dilata fino all’eccesso l’ineccepibile obbligo del datore di lavoro di prevedere, prevenire ed impedire anche i comportamenti negligenti del lavoratore da cui possa derivare un infortunio. Con la pronuncia in esame, invece, la Corte, assestandosi su posizioni più ragionevoli e condivisibili, ritiene di precisare, e testualmente “come prima considerazione inziale”, che “il lavoratore non avesse bisogno di essere “preservato”, in quanto il contatto della mano destra con le parti in movimento del tornio non è avvenuta accidentalmente, ma su iniziativa dello stesso lavoratore, al fine di prelevare il pezzo lavorato”.
Con ciò la Corte ha certamente dimostrato di saper fare corretta applicazione del principio per cui il nostro sistema antinfortunistico è passato da un modello iperprotettivo interamente centrato sulla figura del datore di lavoro quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza assoluta, ad un modello collaborativo in cui gli obblighi sono ripartiti fra più soggetti, fra cui il lavoratore; principio dalla stessa Corte sempre enunciato, ma ancora troppe volte sconfessato all’atto pratico, creando forte disorientamento per gli esiti contrapposti di processi analoghi. In questo senso la Sentenza è davvero una pronuncia riappacificatrice ed appagante, anche se dovrebbe essere persino ovvio e al riparo da disallineamenti della giurisprudenza che il datore di lavoro non può avere colpa di un infortunio nel momento in cui il lavoratore è stato messo nelle condizioni di operare in sicurezza, ed abbia contravvenuto autonomamente e volontariamente alle regole previste a sua tutela e da lui conosciute.
Ma la Sentenza merita una particolare menzione, anche sotto un altro profilo, non meno importante, laddove censura un tipico errore in cui si può incorrere nei processi di questo tipo e che era stato commesso nel caso di specie, ovvero confondere ciò che si doveva fare per evitare l’evento con ciò che, col senno di poi, si sarebbe potuto fare perché non accadesse, e assumerlo a profilo di colpa. Il tema nel caso di specie, è l’assenza di uno schermo protettivo che se presente avrebbe evitato l’evento. Al proposito afferma la Corte che la ritenuta necessità di uno schermo “protettivo” sul macchinario appare frutto di un ragionamento creativo, secondo la logica del “senno del poi”, che, come noto, non può fondare il giudizio di colpevolezza colposa. In tale ambito, infatti, il riscontro della colpa deve essere il risultato di un processo ricognitivo che individui a monte, secondo una valutazione ex ante, la regola cautelare che si assume violata (cfr. Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Rv. 281997 – 17; Sez. 4, n. 9390 del 13/12/2016 – dep. 2017, Rv. 269254 01). La sentenza impugnata, di contro, ha individuato la regola cautelare sulla base di una valutazione ricavata “ex post” ad evento avvenuto, in maniera del tutto astratta e svincolata dal caso concreto: non ha, infatti, considerato la fase di lavorazione in cui si è verificato l’incidente e non si è posta il problema di quali fossero le misure di protezione previste per quella specifica fase. e argomentazioni su cui si fonda la responsabilità dei prevenuti non hanno adeguatamente valutato la circostanza che il tornio era dotato di un apposito dispositivo di protezione, in relazione alla fase lavorativa nel corso del quale è avvenuto l’infortunio, costituito dal pedale del freno: azionandolo, il mandrino si sarebbe fermato, consentendo all’operaio di prelevare il pezzo senza problemi. La regola cautelare dello schermo “protettivo” è stata ricavata ex post ed in maniera congetturale dai giudici di merito, senza una effettiva analisi dell’utilità e percorribilità in concreto di una simile soluzione alla luce delle modalità di funzionamento del macchinario e, soprattutto, della fase di lavorazione in cui si è verificato l’infortunio.
Anche sotto il profilo dell’individuazione della norma cautelare violata, l’auspicio è dunque quello di una più accurata aderenza ai principi basilari che governano la responsabilità penale, fin dalla formulazione dell’imputazione, per evitare che occorrano tre gradi di giudizio per una Sentenza di assoluzione che, per inciso, è arrivata nel caso di specie, a più di sette anni dal fatto.